Analisi

L’impatto sociale delle iniziative di economia circolare: la rimanifatturazione

Il remanufacturing può rappresentare una importante opportunità per raggiungere obiettivi di sostenibilità, in particolare grazie alla integrazione tra modelli di circular economy e di servitizzazione

Pubblicato il 17 Apr 2023

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Negli ultimi anni si sono moltiplicate le politiche tese a incentivare comportamenti e modelli di business più sostenibili. Il focus prevalente è sulla transizione verde e sul raggiungimento del cosiddetto Net Zero. Entro il 2050 l’Unione Europea mira a diventare “climaticamente neutra” – ovvero un’economia con zero emissioni nette di gas a effetto serra. Si tratta pertanto di intraprendere azioni globali e urgenti per costruire un futuro migliore, e tutti gli attori – cittadini, imprese, e istituzioni – sono chiamati a contribuire. La Commissione Europea ha elaborato uno specifico piano di azioni, il cosiddetto Green Deal, per perseguire gli obiettivi di consumo sostenibile, per favorire l’adozione di paradigmi di economia circolare, e per limitare che smaltimento e dismissione di beni avvenga prematuramente. Sono recenti esempi di queste politiche:

a) la proposta di Regolamento per la progettazione ecocompatibile di prodotti sostenibili (ESPR), che mira a definire i requisiti per incrementare la durabilità e la riparabilità di beni industriali;

b) la proposta di Direttiva per la responsabilizzazione dei consumatori verso la transizione verde (ECGT), che definisce le modalità tramite cui i consumatori dovranno essere informati sul grado di ecocompatibilità dei prodotti che acquistano;

c) il progetto di legge Right to repair , che mira a creare i presupposti affinché un numero maggiore di beni possa essere convenientemente riparato anche a valle del periodo di garanzia.

I benefici di una integrazione tra servitizzazione ed economia circolare

Le grandi imprese industriali mirano a mettere a punto nuovi modelli di business che possano al contempo garantire crescita, sviluppo economico e benessere sociale, senza però incrementare il consumo di risorse non rinnovabili e l’emissione di sostanze inquinanti.

Una interessante combinazione è data dalla integrazione dei paradigmi di servitizzazione e di economia circolare. Questo binomio può essere fulcro di comportamenti e modelli di business più sostenibili. Molte imprese stanno esplorando le possibilità di recupero dei beni a fine vita utile (End of Use), per rimanifatturarli e prolungarne la vita utile (End of Life). I benefici ambientali della rimanifatturazione sono certamente evidenti, ma i paradigmi della sostenibilità dovrebbero essere misurati in accordo alla cosiddetta “triple boottom line”: oltre alla dimensione economica e a quella ambientale, ogni scelta dovrebbe essere ponderata anche in relazione al suo impatto sociale. Questa dimensione, di fatto, riguarda le interazioni che una specifica azienda ha con stakeholders interni ed esterni, ovvero con coloro che direttamente o indirettamente sono coinvolti e socialmente impattati dall’attività economica. Nonostante la rilevanza dei temi connessi alla compliance e ai principi ESG (Environmental, Social & Governance), la valutazione dell’impatto sociale delle iniziative di economia circolare e di rimanifatturazione, non è condotta in accordo a metodiche formali, in accordo a principi condivisi e normati, e in base a dati oggettivabili e di adeguata qualità. Si tratta però di una situazione temporanea: la valutazione delle implicazioni sociali sta acquisendo sempre più rilevanza grazie alla Commissione Europea che il 14 dicembre 2022 ha adottato in via definitiva la Direttiva relativa alla comunicazione societaria sulla sostenibilità (CSRD), la cui proposta legislativa risale al 21 aprile 2021.

La suddetta CSRD richiede alle imprese, nell’ambito di applicazione, di redigere reporting di sostenibilità in conformità a European Sustainability Reporting Standards (ESRS) adottati dalla Commissione Europea come atti delegati. Ai sensi della CSRD, il gruppo consultivo europeo sull’informativa finanziaria (EFRAG) è stato nominato consulente tecnico della Commissione Europea per lo sviluppo del progetto ESRS. In data 23 novembre 2022, EFRAG ha presentato alla Commissione Europea la prima serie di standard sui principi europei di rendicontazione della sostenibilità ESRS. Per quanto attiene le informazioni sociali, dovranno essere fornite informazioni in merito all’impatto sociale conseguente allo svolgimento di ogni attività economica in relazione almeno a tre stakeholders primari:

a) i lavoratori, sia quelli che operano all’interno delle mura aziendali sia quelli che operano lungo l’intera filiera del valore in cui l’azienda si inserisce;

b) le comunità locali;

c) i clienti e utilizzatori finale dei beni.

Ci aspettiamo che le esigenze di compliance alle regolamentazioni in oggetto spingano le imprese ad adottare sistemi per la valutazione dell’impatto sociale più consistenti, basati su metodi condivisi, su algoritmi di calcolo trasparenti e su dati oggettivi. Tutto ciò sperando che in materia di impatto sociale non si ripetano fenomeni simili al famoso Green Washing. (In questo periodo i fenomeni di Green Washing sono oggetto di richiesta per forti sanzioni, si veda la proposta di Green Claims Directive)

L’importanza di disporre di modelli di valutazione dell’impatto sociale

E’ quindi necessario che la ricerca scientifica si impegni per sviluppare conoscenza in materia di impatto sociale, e per facilitare lo sviluppo dei modelli di valutazione di cui sopra. Di fatto, la ragione per cui la dimensione sociale della sostenibilità, nelle scelte dei manager, appare spesso trascurata è data dalla difficoltà di valutare e misurare gli impatti conseguenti alle relazioni sociali. Da sempre i metodi per l’analisi di convenienza economica sono oggetto di insegnamento nelle Business School. Ogni manager padroneggia tecniche più o meno sofisticate per stimare il ritorno su un investimento aziendale con indicatori di redditività (e.g., ROI, RONA), sa calcolare i tempi di payback, il valore attuale netto (NPV) dei flussi di cassa prospettici, il punto di pareggio (BEP), sa stimare i costi di produzione, conosce i meccanismi di funzionamento e i limiti dei sistemi di contabilità industriale. Allo stesso modo, nei reparti di R&D, nei progetti di sviluppo di nuovi prodotti (NPD), gli ingegneri adottano tecniche di Value Analysis e Cost Engineering, determinano l’impatto economico di ogni scelta progettuale con strumenti di Life Cycle Costing (LCC). Per obblighi normativi (omologazione di un nuovo prodotto) e/o per esigenze commerciali e di differenziazione (e.g., ecolabel), in fase di progettazione e prototipazione ai tecnici è chiesto di valutare il footprint ambientale del prodotto o del processo nel ciclo di vita. Per questo, si usano tecniche e strumenti specifici (e.g., Life Cycle Assessment), si stimano i consumi energetici (in fase di concept da banche dati, in fase di prototipazione con test di vita accelerati), si calcolano indicatori di varia natura (e.g., tonnellate di CO2 equivalente, acidificazione del suolo, consumo di risorse idriche). Queste applicazioni sono guidate da riferimenti normativi ormai consolidati. (Si può ricordare che la prima versione delle norme della serie ISO 14040: Environmental management — Life cycle assessment — Principles and framework risale al 1997).

Al contrario, la stima dell’impatto sociale risulta per il momento alquanto ostica. Mancano algoritmi, metriche e dati per il calcolo di indicatori. Mancano riferimenti specifici per molti, se non tutti, i settori industriali, e mancano gli strumenti normativi.

Un modello di valutazione dell’impatto sociale per la rimanifatturazione

In relazione a questi gap, come centro di ricerca interuniversitario ASAP che si occupa di servitizzazione e sviluppo del business dei servizi avanzati nelle imprese industriali, e collaborazione con alcune aziende, manager e ricercatori della community, abbiamo recentemente avviato una ricerca tesa a sviluppare un modello di valutazione dell’impatto sociale per le iniziative di rimanifatturazione, per capire quali siano i vantaggi o gli svantaggi rispetto alla prima manifattura.

Abbiamo condotto una review della letteratura scientifica e normativa, e abbiamo identificato le potenziali categorie di beneficio sociale, tra cui:

  • la creazione di posti di lavoro in misura più che proporzionale rispetto alla attività di prima manifattura (in quanto i processi di rimanifatturazione richiedono in genere maggiore manualità e sono meno meccanizzabili);
  • una maggiore “resilienza” del business e della filiera produttiva locale (in questo modello i produttori alimentano il processo produttivo di rimanifatturazione in prevalenza con “scarti” (e.g., parti, componenti, materiali) recuperati da prodotti e beni usati; questo consentirà di ridurre (almeno in parte) la dipendenza della filiera produttiva e del sistema economico di destinazione, da fonti di approvvigionamento globali. La possibilità di incrementare la resilienza delle filiere logistiche e produttive ha assunto particolare rilevanza alla luce degli eventi di discontinuità (e.g, pandemia, guerra in Ucraina), che hanno comportato rallentamenti e/o blocchi nella produzioni di moltissimi beni);
  • la “democratizzazione del bene”, ovvero la maggiore accessibilità e affordability, anche per beni “alto di gamma” e di qualità; di fatto, una maggiore disponibilità di versioni ricondizionate e rimanifatturate di beni di alta qualità consente l’accesso a segmenti di clienti che altrimenti non potrebbero accedere al bene per questioni economiche e reddituali, e quindi apre nuovi mercati; inoltre, l’offerta del bene rimanifatturato tramite formule di leasing, noleggio, pay-per-use (servizi avanzati), che presuppongono che la proprietà del prodotto resti in capo al produttore/ricondizionatore, consentirebbe di ridurre l’investimento unitario di sviluppo di nuovi prodotti su una quantità maggiore di beni; questa diluizione potrebbe consentire di ridurre anche il prezzo del bene di prima manifattura.

La rimanifattura come risposta agli SDGs

I benefici sopra descritti hanno una grande valenza anche alla luce dei Sustainable Development Goals (SDGs) definiti nella Agenda 2030 delle Nazioni Unite. Infatti, un più ampio ricorso a soluzioni di rimanifattura consentirebbe alle imprese di testimoniare il proprio impegno verso il conseguimento di alcuni SDGs, e in particolare e in modo non necessariamente esaustivo:

  • SDG 1 (No Poverty): da un lato, la creazione di posti di lavoro di cui al punto precedente, contribuisce indirettamente anche alla riduzione della povertà; dall’altro lato, uno dei principi cardine del remanufacturing – e in generale della circolarità – è la resource sufficiency, per cui questo business model consente di gestire la scarsità di risorse nei paesi in via di sviluppo e dunque assicurare la sussistenza dei processi di produzione;
  • SDG 8 (Decent Work and Economic Growth): il remanufacturing consente la creazione di nuovi posti lavoro; secondo le stime del European Remanufacturing Network, entro il 2030 raggiungerà un valore di 100 miliardi di Euro rispetto ai 30 del 2015.
  • SDG 9: (Industry, Innovation and Infrastructure) il conseguimento di questo obiettivo implica lo sviluppo di infrastrutture affidabili, sostenibili e resilienti, e dunque l’adozione di modelli di business come quello del remanufacturing e della servitizzazione.

In questo progetto di ricerca, che come detto mira ad elaborare un modello di valutazione dell’impatto sociale delle iniziative di rimanifatturazione, stanno collaborando numerose aziende industriali, operanti in settori quali la produzione di sistemi di stampa, apparecchiature per la ristorazione e il lavaggio professionale, sistemi di controllo per impianti frigoriferi, gruppi di continuità, sistemi logistici e di movimentazione, compressori industriali. Questo evidenzia il forte interesse da parte di manager e imprenditori, e il carattere di trasversalità di questa tematica.

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