Gli accordi di libero scambio giocano un ruolo chiave negli equilibri competitivi del mercato agroalimentare globale, orientando le scelte strategiche e gli investimenti delle imprese. In questo settore l’Unione europea, in virtù della progressiva cessione di sovranità da parte degli Stati membri, gioca oggi un ruolo di rilievo assoluto. A oggi, rileva lo studio Nomisma presentato oggi in occasione del primo action thank firmato Agrinsieme e andato in scena a Roma, l’UE ha concluso al momento 30 accordi con altri Paesi, mentre 43 sono provvisoriamente in vigore (tra cui quello recente con il Canada) e 20 risultano in fase di negoziazione.
In termini di rilevanza, stiamo parlando di un settore che si conferma tra i più incisivi: nel 2016 l’export UE di prodotti agroalimentari verso Paesi terzi ha toccato un valore complessivo di 125 miliardi di euro, che consegnano all’Unione il secondo posto nella classifica degli esportatori al mondo (solo gli Usa fanno meglio). «Negli ultimi 17 anni la crescita degli accordi commerciali regionali ha sopperito alle difficoltà incontrate dall’approccio multilaterale nazionale. L’UE è molto attiva tra partenariati economici, accordi commerciali e altri tipi di intese ed è uno dei principali player al mondo sia per import sia per export – sottolinea il responsabile agroalimentare di Nomisma Denis Pantini -. È interessante notare che negli ultimi 10 anni la bilancia commerciale è migliorata, abbassando il saldo negativo fino ai 6 miliardi attuali, e che 4 tipologie (frutta fresca, pesci, caffè e the, semi e colture oleaginosi) coprono la metà di tutto l’import nell’Unione».
Il paniere dell’import europeo si divide oggi quasi ugualmente fra derrate agricole e prodotti trasformati. Mentre se ci si sposta sul fronte export dominano i secondi: vini e bevande su tutti. «Gli accordi di libero scambio sono importanti per abbattere le barriere all’export che sono di due tipi. Da un lato quelle tariffarie, rappresentate dai dazi sull’importazione, e dall’altro quelle non tariffarie, che si traducono spesso in misure subdole di protezionismo mascherare da clausole commerciali o tecniche legate a etichettature o certificazioni e che dal 2012 sono aumentate in modo importante – sottolinea Pantini -. Parliamo di vincoli insormontabili per le piccole imprese, che al contrario dei big non possono delocalizzare con facilità per superare queste barriere».
E in Italia? Nel nostro Paese si nota un andamento dell’export negli ultimi 15 anni connotato da una forte crescita verso Paesi terzi extra UE. I prodotti Made in Italy che piacciono di più fuori dai confini comunitari sono vino e olio d’oliva e nell’ultimo decennio è aumentato l’export di tutti i nostri prodotti (tranne quello dei formaggi a causa dell’embargo russo). Bisogna poi mettere in evidenza che la categoria di prodotti Dop/Igp ha un peso rilevante sull’export fuori Europa, con numeri che oscillano dal 30 al 50% a seconda dei prodotti. Per alcune denominazioni di particolare prestigio, come i rossi Dop della Toscana e i bianchi Dop di Trentino-Alto Adige e Friuli-Venezia Giulia, l’incidenza dei mercati non-UE supera il 60% dei valori esportati.
Il direttore dell’area agrifood di Nomisma ha affrontato poi anche il tema Ceta, l’accordo di libero scambio firmato con il Canada, sottolineando le opportunità per il made in Italy: «In Canada il made in Italy è conosciuto e apprezzato: 8 consumatori su 10 hanno comprato e consumato almeno un prodotto italiano in un anno. È interessante notare che l’elemento che i canadesi guardano di più quando cercano un prodotto italiano è se nella confezione compare un logo o un’immagine che rimanda all’Italia. Questo aspetto prima del Ceta era un problema perché c’erano prodotti spacciati visivamente per italiani. Ora invece la denominazione geografica è tutelata anche grazie all’eliminazione di quegli elementi evocativi sulle confezioni che possono indurre in errore».
Pantini ha citato come caso emblematico della rilevanza degli accordi di libero scambio quello del vino in Cina, che vive tassi di aumento dell’import a doppia cifra senza coinvolgere l’Italia fra i protagonisti. Escludendo Francia che ha presenza storica, nel caso di altri competitor (Australia, Cile) la sfida nello stato asiatico si gioca sul prezzo e, appunto, sugli accordi di libero scambio che permettono agli altri Paesi di far entrate il vino a dazi ridotti o dazi zero, contro il 14% circa pagato dalle aziende italiane. «Basta notare che Messico, Colombia, Cile e Corea del Sud, per quanto pesino poco ancora, hanno importato sempre più dall’Italia dopo la firma degli accordi con crescite anche a tripla cifra». Fra i negoziati in ballo il direttore Nomisma cita come più importanti quelli con Giappone e Mercosur (Argentina, Brasile, Paraguay, Uruguay e Venezuela): «Il Giappone è un Paese da 127 milioni di consumatori interessati al made in Italy, già importante per l’export e da cui non importiamo praticamente nulla. Il Mercosur merita invece più attenzione perché da lì importiamo il 7% prodotti agricoli».
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