Dopo due anni di rallentamento, dovuti anche agli “aggiustamenti” normativi in Italia e in Europa, il 2025 segna una fase di rilancio per l’economia circolare nazionale. Secondo il Circular Economy Report 2025 elaborato da Energy&Strategy – Politecnico di Milano, il valore economico generato da pratiche circolari ha raggiunto 18,3 miliardi di euro l’anno, in aumento rispetto ai 16,4 miliardi del 2024.
L’economia circolare italiana è davvero in ripresa?
Tuttavia, questo risultato rappresenta solo il 15% del potenziale complessivo: per centrare l’obiettivo dei 119 miliardi di euro stimati al 2030, il Paese dovrebbe risparmiare altri 17 miliardi ogni anno e decuplicare gli investimenti attuali.
Dal punto di vista ambientale, l’adozione piena di pratiche circolari potrebbe portare a una riduzione annuale di 2,6 milioni di tonnellate di CO₂ equivalente, ma anche qui si tratta solo di una minima parte del possibile impatto positivo.
Come sottolinea Davide Chiaroni, vicedirettore di Energy&Strategy e responsabile del Report, “l’auspicio è che, dopo la frenata del 2023 e 2024, quest’anno possa davvero segnare la ripartenza del settore e inneschi quel circolo virtuoso che tanti operatori attendono”.

Che cosa frena ancora la transizione circolare delle imprese?
Il livello medio di maturità circolare delle imprese italiane, calcolato su un campione di 320 aziende di dieci settori produttivi, è passato da 2,2 nel 2024 a 3,1 su 5 nel 2025, segno di un progresso significativo ma non ancora sufficiente.
Il 49% delle pratiche circolari oggi in atto è di attuazione recente, mentre cresce la quota di aziende intenzionate a introdurle, dal 24% al 34% in un solo anno. Anche gli investimenti stanno aumentando, ma restano modesti: solo il 16% delle imprese ha destinato tra 150.000 e 250.000 euro, e appena l’8% ha superato i 250.000.
Secondo Vittorio Chiesa, direttore di Energy&Strategy, “nonostante il parziale cambio di rotta imposto dal Clean Industrial Deal, che nel post Green Deal affianca al percorso di decarbonizzazione la più stringente tutela della competitività industriale, il riconoscimento del ruolo dell’economia circolare per il raggiungimento dei target al 2030 e al 2050 non risulta compromesso”.

La nuova normativa ha effettivamente stimolato una maggiore consapevolezza: il 30% delle imprese oggi monitora le proprie performance circolari, contro appena l’8% del 2024, mentre un altro 37% prevede di introdurre strumenti di misurazione entro i prossimi anni. Tuttavia, gli investimenti su larga scala restano rari, confinati a imprese di grandi dimensioni o a settori capital intensive.
Quanto conta la circolarità per i cittadini italiani?
Per la prima volta, il Circular Economy Report include anche una ricerca condotta con DOXA su un campione di 3.000 individui rappresentativi della popolazione italiana.
I risultati mostrano che il 60% dichiara di conoscere e applicare l’economia circolare, e le persone tra i 65 e i 75 anni le attribuiscono un’importanza media di 4,2 su 5.
Eppure, quando si passa dai principi ai comportamenti, i dati cambiano: sono infatti i giovani tra i 18 e i 34 anni i più inclini a praticare forme di consumo circolare come sharing, noleggio, acquisto di usato o ricondizionato, anche se le motivazioni restano prevalentemente economiche.
Il ricondizionato raggiunge il 26% nel settore tech e l’usato nel comparto auto e moto arriva al 37%, ma la preferenza per il nuovo rimane predominante, toccando il 60% tra gli over 55.
Appena un cittadino su quattro si considera pienamente responsabile dell’impatto ambientale dei propri acquisti, e la fiducia media nelle aziende che dichiarano di applicare pratiche circolari si ferma a 3,3 su 5.
“La sfida futura sarà ridurre il divario tra percezione e azione – spiega Chiaroni – rendendo la circolarità un elemento integrato e riconoscibile nelle scelte quotidiane dei consumatori”.
Gli italiani sanno davvero quanto siamo virtuosi in Europa?
Uno dei dati più sorprendenti emersi dal sondaggio è lo scetticismo nei confronti dei successi italiani: solo il 20% sa che l’Italia è prima in Europa per il riciclo dei rifiuti, e quasi il doppio non lo ritiene credibile.
Appena il 17% è a conoscenza del buon posizionamento dell’Italia nell’economia circolare globale, riconosciuto anche dalla Commissione Europea, e meno di uno su sei sa che rigeneriamo il 98% degli oli minerali usati.
Questa diffidenza riflette una conoscenza limitata del concetto di circolarità, spesso ridotta al solo riciclo dei materiali (22%) o al recupero energetico, mentre pochi cittadini comprendono pratiche più sistemiche come riparazione, riprogettazione e condivisione.
Come sottolineano i ricercatori, rafforzare la fiducia nei prodotti ricondizionati e promuovere una cultura della sostenibilità resta una priorità strategica, da sostenere con politiche fiscali, educative e comunicative mirate.
Che ruolo ha la bioeconomia nel modello circolare italiano?
Una delle novità del Report 2025 è il focus sul “ciclo biologico” dell’economia circolare, con particolare attenzione alla bioeconomia.
L’Italia, grazie alla Strategia Nazionale per la Bioeconomia e al Piano di Implementazione 2025–2027, sta sviluppando filiere in settori chiave come agroalimentare, silvicoltura e bioindustria.
Il Paese conta oggi 36.814 siti oggetto di bonifica, di cui 17.340 in corso: oltre il 60% è ancora nelle fasi iniziali, ma rappresenta un potenziale enorme per la rigenerazione dei suoli e per la nascita di nuove soluzioni sostenibili.
Parallelamente, cresce il settore delle bioraffinerie, che trasformano la biomassa in materiali e sostanze biobased – dai polimeri ai cosmetici, fino ai farmaceutici.
Questo comparto, un tempo marginale, si sta affermando come uno dei pilastri dell’industria circolare italiana, capace di coniugare innovazione e sostenibilità.
Le startup circolari possono cambiare il futuro?
L’edizione 2025 del Report ha censito circa 150 startup italiane attive nel mondo della circolarità, concentrate soprattutto nel Centro-Nord: la Lombardia da sola ne ospita oltre il 30%, seguita da Emilia-Romagna (11%), Piemonte (10%), Veneto e Puglia (7%).
Si tratta di realtà giovani e agili, ma ancora in fase di consolidamento: il 44% delle startup del ciclo tecnico e il 61% di quelle del ciclo biologico operano senza dipendenti diretti, avvalendosi di collaboratori esterni.
Solo il 18% genera un fatturato superiore ai 200.000 euro, soglia che coincide con la media nazionale del settore.
Tra il 2020 e il 2025, le startup del ciclo tecnico hanno raccolto oltre 15 milioni di euro di finanziamenti, mentre quelle del biologico si fermano a circa 2 milioni.
Il venture capital domina come principale fonte di finanziamento (95%), mentre equity crowdfunding e debt funding restano marginali.
Pur in assenza di un vero ecosistema dell’innovazione circolare, i segnali sono chiari: l’interesse degli investitori è in crescita e l’Italia potrebbe trovarsi alle soglie di una nuova fase di maturità sostenibile.
Quali prospettive per il 2030?
L’Italia ha davanti a sé un percorso ambizioso ma realistico. Il 2025 segna, come affermano i ricercatori del Politecnico, “un sostanziale rasserenamento del quadro complessivo” e una rinnovata fiducia nella capacità del sistema produttivo di trasformarsi.
Serviranno però politiche più coraggiose, incentivi mirati e un forte impegno comunicativo per colmare il divario tra consapevolezza e azione, sia nelle imprese che nei cittadini. L’economia circolare italiana si trova oggi a un bivio: scegliere di accelerare potrebbe significare non solo raggiungere i target europei, ma anche costruire un nuovo modello competitivo e sostenibile fondato su innovazione, responsabilità e valore condiviso.



































































