“Negli ultimi dodici mesi abbiamo analizzato oltre 1.400 fondi per comprendere come gli asset manager stiano affrontando concretamente l’ESG e la sostenibilità. I risultati mostrano un mercato in rapida maturazione, dove le strategie tradizionali basate sulle esclusioni restano diffuse ma i temi sostenibili proiettati al futuro e l’innovazione promossa dai dati stanno guadagnando terreno”. E’ questo il punto di partenza dell’analisi di Annie Omojola, Research Analyst di MainStreet Partners, che evidenzia come l’ESG non sia più soltanto un’etichetta “di conformità” per diventare sempre più un criterio con cui leggere la direzione in cui vanno i mercati, le aziende e le politiche pubbliche.
Dal “non investo in…” al “voglio investire in…”
La prima grande linea di frattura attraversa il terreno delle strategie basate sullo screening negativo, ancora molto presenti nei portafogli. Omojola ricorda che “lo screening negativo rimane l’approccio più comune, adottato da quasi un fondo su tre”.
Il meccanismo è noto: “Questi prodotti escludono società coinvolte in settori controversi. Il predominio di questa strategia non sorprende: si tratta di una delle pratiche ESG più antiche e applicate, che fornisce ai gestori un quadro chiaro per limitare i rischi reputazionali e rispettare le richieste minime degli investitori”.
È un approccio che ha il merito di fissare una soglia, ma Omojola ne mette in luce i limiti: “Questa strategia è difensiva più che proattiva – spiega – Invece di cercare nuove opportunità o promuovere un cambiamento positivo, infatti, si concentra su ciò che non va incluso in portafoglio. È efficace nel ridurre certi rischi ma non persegue attivamente obiettivi di sostenibilità né genera impatti più ampi”.
A questa visione “per sottrazione” si contrappongono gli approcci “Sustainable” e “Thematic”, che, spiega la Research Analyst, “insieme rappresentano la seconda quota più ampia” dell’universo analizzato e “riflettono una mentalità più propositiva”.
“Questi fondi si concentrano su temi come biodiversità, economia circolare, inclusione ed energia pulita, spesso collegandosi agli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDGs) delle Nazioni Unite”, aggiunge, e soprattutto, osserva Omojola, “è interessante notare come i fondi con un’esposizione multi-tematica superino oggi quelli focalizzati su un singolo SDG, segnalando un passaggio verso la diversificazione e la generazione di opportunità”.
Non basta più, quindi, dire “non investo in…”; la vera domanda è “che cosa scelgo di finanziare e perché, in chiave di sostenibilità?”.
Attivi, passivi e due strade per integrare la sostenibilità
La seconda linea di lettura riguarda la differenza tra fondi attivi e passivi. “Esiste una chiara distinzione tra strategie attive e passive”, sintetizza Omojola.
Sul fronte indicizzato, “oltre la metà degli ETF e dei fondi indicizzati rientra nelle categorie ‘Improvement’ o ‘Best-in-Class’. Ciò è logico – argomenta l’analista – poiché l’ottimizzazione si adatta bene a portafogli che possono essere orientati verso società con punteggi ESG elevati, basse emissioni di carbonio o percorsi allineati all’Accordo di Parigi“.
I fondi attivi, invece, seguono una traiettoria diversa: “Si concentrano più spesso su screening negativi e strategie sostenibili, dove il giudizio qualitativo, la costruzione narrativa e la convinzione del gestore hanno un ruolo più forte”.
Questa divergenza non è solo tecnica, ma si traduce in scelte strategiche per le società di gestione. “Per le società di gestione, questo divario apre due percorsi strategici – spiega Omojola – da un lato, i fondi passivi possono ampliare la propria offerta tematica oltre la semplice ottimizzazione dei punteggi; dall’altro, i fondi attivi possono rafforzare le competenze interne in materia di sostenibilità ed estendere la copertura tematica o geografica”.
Chi è davvero sostenibile? Solo un fondo su cinque
La domanda che molti investitori si pongono è su quanti fondi che si presentano come sostenibili rispettino davvero criteri stringenti? “Pochi secondo il nostro framework proprietario – afferma Omojola – Solo il 20% dei fondi analizzati soddisfa la definizione di sostenibilità di MainStreet Partners”.
La soglia di accesso è elevata: «Per qualificarsi, i fondi devono mostrare un’intenzionalità chiara verso la sostenibilità, una governance efficace, attività di stewardship e risultati concreti, evitando allo stesso tempo pratiche che causano danni significativi».
All’interno di questo gruppo ristretto, «la maggior parte adotta un approccio ampio agli SDG o multi-tematico, con una forte attenzione ai temi ambientali e climatici – prosegue – Tuttavia, permangono aree ancora poco esplorate, come l’inclusione digitale, la mobilità sostenibile e la transizione sociale”.
Per chi sviluppa nuovi prodotti, questo significa avere ampi margini per costruire strategie che intercettino bisogni oggi meno serviti; per chi investe, significa che la vera sostenibilità resta ancora un elemento distintivo, non uno standard già pienamente raggiunto dal mercato.
Dove la sostenibilità è più facile (e dove lo è meno)
La ricerca di MainStreet Partners entra poi nel dettaglio delle varie asset class. “L’analisi per asset class racconta una storia interessante – osserva Omojola – Il panorama dei fondi sostenibili è dominato dalle azioni Large Cap globali, il che riflette la liquidità e la domanda da parte degliinvestitori”. Qui i dati disponibili, la copertura analitica e la pressione regolatoria rendono più semplice l’integrazione di criteri ESG.
Al contrario, “la scarsità di opzioni sostenibili in segmenti come obbligazioni governative globali, credito high-yield ed azioni dei mercati emergenti è di natura strutturale”.
Nel segmento high-yield, il problema è soprattutto la composizione settoriale: “Gran parte dell’universo è concentrata in settori come petrolio e gas, carbone, gioco d’azzardo e finanza ad alta leva, spesso esclusi dai mandati ESG e sostenibili, riducendo così le possibilità di investimento”.
Sul fronte delle obbligazioni sovrane, il quadro è in evoluzione: “Sebbene l’emissione di green bond sovrani resti modesta rispetto alla dimensione del mercato obbligazionario globale, sta però crescendo costantemente, il che evidenzia un potenziale di lungo periodo per questa asset class”.
Per quanto riguarda le azioni dei mercati emergenti, il tema centrale è quello della qualità delle informazioni e delle strutture di governance. “Ciononostante, il loro ruolo centrale nella transizione energetica – dalle rinnovabili alle catene di fornitura per veicoli elettrici e infrastrutture verdi – li rende un’opportunità interessante nel lungo periodo. Miglioramenti nella trasparenza e una crescente domanda di diversificazione da parte degli investitori potrebbero progressivamente aprire questi segmenti”.
La nuova fase: dalla gestione del rischio alla creazione di valore
Nelle battute finali del suo commento, Omojola allarga lo sguardo al quadro d’insieme: “L’investimento ESG e sostenibile sta entrando in una nuova fase – afferma – Le esclusioni continueranno a rappresentare la base di partenza ma la differenziazione dipenderà sempre più dall’innovazione – nei temi, nelle asset class e nelle regioni”.
“Per i gestori, il messaggio è chiaro: la sostenibilità non è più solo gestione del rischio ma creazione di valore. a prossima generazione di fondi sostenibili sarà definita non da ciò che esclude ma da ciò che rende possibile”.



































































