Tony Blair afferma che “è sbagliato chiedere alla gente sacrifici finanziari e cambiamenti allo stile di vita quando sanno che il loro impatto sulle emissioni globali è minimo”. (La dichiarazione dell’ex premier britannico risale al 29 aprile 2025 ed è stata pronunciata in occasione della presentazione del rapporto The Climate Paradox: Why We Need to Reset Action on Climate Change, consultabile QUI, realizzato dal Tony Blair Institute for global change n.d.r.)
D’altra parte, aveva già osservato che se pure la Gran Bretagna decarbonizzasse del tutto la sua economia (la sesta al mondo) la riduzione delle emissioni globali sarebbe solo del 2%, visto che per due terzi i responsabili sono la Cina, l’India e il Sud est asiatico (Il Corriere della Sera del 1/5/25, pagina 20. n.d.r.).
Un pensiero critico o un pensiero antiambientalista?
Nel mirino c’è il green deal e quella che per molti è stata l’infatuazione green dell’Europa, seguita all’esplosione del fenomeno Greta Thunberg.
Non fatico a concordare sul fatto che il fondamentalismo verde e la retorica della decrescita felice non possano essere le colonne portanti del futuro dell’umanità.
L’inquinamento, il cambiamento climatico sono sfide globali oggettive, che anche Blair non nega.
Allo stesso tempo, è vero che l’accesso ad alcuni beni e servizi, che noi consideriamo una componente “ovvia” del nostro stile di vita (acqua pulita, cibo, elettricità, internet, mobilità, informazioni), da parte di cinque o sei miliardi di esseri umani che oggi ne sono esclusi produrrà un impatto ambientale e climatico che certamente non potrà essere compensato dalle ottimizzazioni degli stili di vita di un miliardo di persone che già ne fruiscono.
Una trasformazione nel modo di produrre e di consumare
La trasformazione del nostro modo di produrre e consumare, forzata in questi anni dal Green Deal, ha, però, il senso insostituibile di spingere lo sviluppo di tecnologie meno inquinanti che daranno il loro beneficio non tanto per sostituire tecnologie leggermente più inquinanti in Gran Bretagna o in Germania (sostituisco un’auto Euro5 con un’auto Euro6), bensì per fornire l’accesso ai beni e ai servizi fondamentali a chi oggi non ne dispone.
Se lo sviluppo della Cina, dell’India o del Sud Est asiatico di cui parla Tony Blair, fosse effettuato con le tecnologie con cui la Gran Bretagna ha realizzato la sua prima industrializzazione, oggi avremmo i cieli del pianeta ricoperti da una cappa di fuliggine insostenibile.
Se lo sviluppo del continente africano, dove oggi si registra la spinta demografica più forte, disporrà di tecnologie più pulite avrà un impatto più sopportabile dall’ecosistema in cui viviamo tutti insieme.
Il compito dei Paesi più sviluppati deve essere quello di progettare, sviluppare e utilizzare per primi tecnologie e stili di vita più compatibili con un pianeta abitato da 10 miliardi di persone che godano tutte dei medesimi servizi di base.
Non è una sfida da poco e non è un traguardo vicino. Fa bene Tony Blair a citare i progetti di cattura della CO2 (CCS Carbon Capture & Storage) come esempi di tecnologie utili. Non ci si può, però, fermare a quello perché l’impatto ambientale dell’umanità non è limitato alle emissioni di CO2.
È una sfida che sta creando e creerà nuovi settori industriali, nuovi prodotti, nuovi stili di vita, una cultura diversa ed è una sfida che può essere vinta o persa dall’Europa. Il prezzo di una sconfitta sarebbe catastrofico e i segnali, in questo senso, sono già oggi preoccupanti.
Basta guardare ai progressi dell’industria cinese nel mercato dell’auto grazie alle vetture elettriche il cui avvento è stato spinto proprio dalla legislazione europea.
È un tema complesso e non saranno certo le sirene di un ambientalismo estremo quanto superficiale a indicare la strada ma bisogna stare attenti a farsi sovrastare dalle reazioni conservatrici degli interessi costituiti (dei più ricchi e dei più poveri), buttando il bambino con l’acqua sporca.