CARBON CAPTURE

CCS, Carbon Capture & Storage e decarbonizzazione: tanti vantaggi, ma non per tutti



Indirizzo copiato

A che punto siamo con l’evoluzione delle tecnologie e della filiera Carbon Capture & Storage, quali sono le prospettive di questo approccio alla decarbonizzazione e come si distinguono dagli scenari che caratterizzano invece il Carbon Capture Utilization and Storage. Ne abbiamo parlato con Matteo Carmelo Romano, Professore di Sistemi per l’Energia e l’Ambiente del Politecnico…

Pubblicato il 1 mar 2024

Mauro Bellini

Direttore Responsabile ESG360.it e Agrifood.Tech



CCS, Carbon Capture & Storage come soluzione per la decarbonizzazione delle imprese industriali
Matteo Carmelo Romano, Professore di Sistemi per l’Energia e l’Ambiente del Politecnico di Milano

La decarbonizzazione del mondo industriale, con una sintesi un po’ “brutale”, fa riferimento a tre grandi scenari: la trasformazione dei processi produttivi in modo da ridurre al massimo le emissioni di CO2, la capacità di catturare le emissioni per “riportarle” nel sottosuolo, e l’integrazione tra queste due prospettive che sono naturalmente complementari. Per alcuni settori industriali, la possibilità di catturare e iniettare nel sottosuolo la CO2, ovvero la CCS, Carbon Capture & Storage, rappresenta l’unica soluzione possibile per una riduzione significativa delle emissioni; in altri casi lo scenario che si sta delineando dipende ampiamente dalle scelte strategiche dei vari paesi a livello di normative e di incentivi.

In generale e in ogni caso, la spinta alla decarbonizzazione sta trainando il mondo industriale verso una crescita di attenzione nei confronti delle soluzioni proposte dalla CCS e, laddove possibile, una speciale attenzione verso la CCU, Carbon Capture Utilization per l’utilizzo della CO2 prodotta nell’ambito di alcuni processi industriali.

Abbiamo voluto fare il punto sullo scenario della CCS e gettare lo sguardo sulla CCU con Matteo Carmelo Romano, Professore di Sistemi per l’Energia e l’Ambiente del Politecnico di Milano.

A che punto siamo oggi in termini di innovazione tecnologica per la CCS, Carbon Capture & Storage?

Per inquadrare al meglio la situazione della CCS è necessario distinguere tra le due fasi principali di questo processo, vale a dire la cattura da una parte e lo stoccaggio geologico della CO2 dall’altra. In alcuni settori, la tecnologia di separazione di CO2 è pienamente consolidata ed è attiva da decenni, perché è parte integrante dei processi di produzione. È il caso, ad esempio, degli impianti di produzione di ammoniaca, di bioetanolo, di upgrading del gas naturale e più recentemente di produzione di biometano da biogas. Questi processi generano CO2 ad elevata purezza attraverso processi di separazione tecnologicamente maturi.

Si tratta di settori nei quali la CO2 viene “catturata” o, per meglio dire “separata”, a prescindere da qualsiasi valutazione legata all’ambiente e alla riduzione delle emissioni, dal momento che il valore generato dalla separazione della CO2 è direttamente correlato al valore del prodotto che viene distribuito sul mercato.

La tecnologia di cattura della CO2 è invece meno matura nella separazione da fonti meno convenzionali, caratterizzate da un processo di separazione più “difficile”, come i fumi di combustione di centrali elettriche o di processi industriali. In questi casi, la CO2 si trova diluita in altri gas (soprattutto azoto e ossigeno) e impurità che rendono più complesso e costoso il processo di separazione. Per queste applicazioni esistono diverse esperienze di impianti dimostrativi, in pochi casi di taglia commerciale, ma si tratta ancora di poche esperienze. Il motivo dello scarso successo è da addebitare al quadro economico-normativo sfavorevole, in quanto sino ad oggi il costo di emissione della CO2 è stato ampiamente inferiore rispetto al costo che si deve sostenere per evitarne l’emissione attraverso sistemi CCS, Carbon Capture & Storage.

L’altra grande dimensione della CCS è poi rappresentata dallo stoccaggio geologico della CO2. Anche in questo caso sono necessarie alcune distinzioni, in particolare in base al tipo di giacimento nel quale iniettare la CO2. Per semplicità limitiamo la discussione a due macrocategorie di siti geologici: i giacimenti esauriti di idrocarburi e gli acquiferi salini profondi.

Nel primo caso si tratta di giacimenti di petrolio o gas naturale non più utilizzati per l’estrazione, oppure di giacimenti attivi di petrolio nei quali si inietta la CO2 allo scopo di aumentare la capacità estrattiva (il cosiddetto “enhanced oil recovery”). In entrambi i casi si tratta di giacimenti nei quali si può stoccare la CO2 con un elevato livello di sicurezza e affidabilità proprio perché la natura geologica di quei bacini è molto ben conosciuta e ha ospitato petrolio o gas per tempi geologici.

Nel caso degli acquiferi salini profondi si hanno maggiori incognite. La geologia è meno nota, si tratta di aree che non sono state sfruttate per queste operazioni e presentano caratteristiche di permeabilità e iniettabilità che possono essere solo ipotizzate con un intrinseco grado di incertezza prima dell’effettiva iniezione della CO2. L’esperienza di iniezione su grande scala per questa tipologia di siti di stoccaggio è limitata e conta sia casi di successo (come nel caso di due impianti Norvegesi che sequestrano quasi un milione di tonnellate di CO2 all’anno ciascuno dal 1996 e dal 2008), sia un’esperienza di insuccesso (il progetto “Gorgon” in Australia, in cui l’iniezione di CO2 è pari a solo un terzo rispetto alla capacità di stoccaggio inizialmente prevista).

Come sta evolvendo lo scenario economico e normativo per la CCS, Carbon Capture & Storage?

Gli esempi fatti poc’anzi relativi ai progetti norvegesi sono stati favoriti dal fatto che in quel paese è presente da tempo una Carbon Tax sulle emissioni, che fin dagli anni ‘90 ha reso l’emissione della CO2 separata nel processo di ugrading del gas naturale più costosa rispetto allo stoccaggio geologico. Questo per dire che è la normativa (o un mercato generato da una normativa, come nel caso degli ETS Emission Trading System europei) che genera le condizioni necessarie per lo sviluppo di progetti CCS, Carbon Capture & Storage non finalizzati all’enhanced oil recovery. È infatti solo la normativa che può dare un vincolo o un valore di mercato a un’esternalità, quale appunto sono le emissioni di CO2, e renderne economicamente competitiva la cattura e lo stoccaggio rispetto all’emissione.

Le quote di emissione di CO2 abbondanti rispetto alla CO2 generata e conseguentemente il basso valore degli ETS è il motivo per cui fino ad oggi non sono stati realizzati impianti significativi di CCS Carbon Capture & Storage in Europa: emettere CO2 costava meno che catturarla e stoccarla. Ma siamo in un contesto in grande evoluzione. Se guardiamo al meccanismo degli ETS in Europa, vediamo che il valore delle emissioni dal 2018 ad oggi è passato da valori inferiori ai 10 € a tonnellata a sfiorare i 100 € a tonnellata nel 2022-2023. Nonostante i segnali di ribasso degli ultimi mesi, è ragionevole che il valore degli ETS nel medio-lungo periodo torni intorno ai 100 € tonnellate o oltre. Questo valore contribuisce indubbiamente a rendere competitiva la CCS per i grandi impianti industriali.

L’altro aspetto chiave riguarda la normativa relativa alle autorizzazioni per iniettare e trasportare la CO2. In questo caso osserviamo che i paesi nel Nord Europa (su tutti, Norvegia, Regno Unito, Danimarca e Paesi Bassi), dove si trovano le maggiori capacità di stoccaggio e i progetti CCS, Carbon Capture & Storage, sono a uno stadio avanzato in fatto di concessioni. I paesi del Sud Europa, inclusa l’Italia, sono più lenti, sia per una minore disponibilità di siti, ma anche per una minore attenzione alla tecnologia CCS.

Relativamente al rapporto tra economia e normative è interessante il caso degli Stati Uniti. Oltreoceano l’iniezione di CO2 nel sottosuolo è praticata fin dagli anni ’70 ai fini di enhanced oil recovery, per lo più prelevando la CO2 da giacimenti naturali. I pochi impianti commerciali e nuovi futuri impianti si svilupperanno grazie a un meccanismo opposto a quello adottato in Europa, ovvero attraverso incentivi che generano una remunerazione per lo stoccaggio della CO2. Il driver di sviluppo è sempre determinato dalla normativa, ma nella forma di incentivo allo stoccaggio e non come penalizzazione per la sua emissione.

CCS, Carbon Capture Storage: nuove prospettive per la decarbonizzazione delle imprese hard to abate

Come dovrebbe cambiare la logica e la struttura degli impianti industriali per favorire adozione e sviluppo della CCS, Carbon Capture & Storage?

In relazione alla CCS non possiamo trattare l’industria come un’unica realtà, perché all’interno dei vari settori industriali ci sono distinzioni molto rilevanti. La Carbon Capture & Storage svolgerà un ruolo fondamentale in alcuni settori industriali come nei cementifici e nella produzione di calce. In questi settori la maggior parte delle emissioni di CO2 non è legata all’utilizzo di combustibili fossili, ma a CO2 di processo generata dalla decomposizione del carbonato di calcio. In questi casi, anche un eventuale processo di elettrificazione, ancorché complesso e costoso, porterebbe solo a una parziale riduzione delle emissioni (inferiore al 50%). Per ridurre le emissioni oltre il 50%, è necessario implementare processi CCS.

Un altro settore che merita una considerazione specifica è rappresentato dai termovalorizzatori. Fermo restando il principio di considerare il termovalorizzatore come sbocco necessario per il trattamento della frazione non riciclabile dei rifiuti, le emissioni prodotte possono essere gestite solo con la CCS, Carbon Capture & Storage. In questi impianti, dato che parte della CO2 generata è di origine biogenica, la CCS può generare una filiera ad emissioni negative, ovvero che contribuisce a ridurre la concentrazione di CO2 in atmosfera.

Nel caso di altri settori ad alte emissioni come l’acciaio e la chimica, la CCS è una opzione importante, ma non necessariamente l’unica. Elettrificazione e idrogeno da elettrolisi possono tecnicamente rendere le emissioni di questi settori quasi-zero. Tuttavia, per elettrificare questi comparti, serve disporre di enormi quantità di energia elettrica a basse emissioni, risorsa oggi scarsa e di costo molto più elevato rispetto all’energia delle fonti fossili. Di conseguenza, l’implementazione di processi CCS in questi ambiti è economicamente molto competitiva, con un potenziale di riduzione delle emissioni di CO2 del 90% e oltre.

In queste industrie, elettrificazione, idrogeno e CCS sono potenzialmente in competizione. La disponibilità delle infrastrutture per il conferimento di elettricità a basse emissioni e idrogeno o per la gestione della CO2 catturata, può rendere una filiera più competitiva rispetto all’altra. È importante osservare che uno scenario di decarbonizzazione di settori energy-intensive come acciaio e chimica attraverso energie rinnovabili potrebbe causare una delocalizzazione della capacità produttiva verso regioni che hanno accesso a risorse rinnovabili a costi molto più bassi rispetto all’Europa, come Nordafrica, Penisola Arabica, Australia, Sud America. Per queste motivazioni la CCS va vista anche come una scelta strategica che consente di mantenere competitiva la capacità produttiva in Europa.

Infine, ci sono altri settori che appartengono al mondo “hard to abate”, come la produzione di carta, di vetro o di ceramica, nei quali la CCS può risultare competitiva nel caso in cui gli impianti siano collocati nelle vicinanze di infrastrutture di trasporto e stoccaggio della CO2. I volumi relativamente ridotti di CO2 generata da questi impianti, rendono il costo di cattura, trasporto e stoccaggio di CO2 poco competitivo. Per questi settori, ritengo che l’elettrificazione sia economicamente più competitiva rispetto alla CCS, a meno di casi particolari.

A che punto siamo in termini di infrastrutture e di catena di fornitura della CCS affinché possa effettivamente diventare accessibile?

La catena di fornitura della CCS dipende dall’infrastruttura di trasporto e stoccaggio della CO2, che è fondamentale per rendere praticabile la cattura. Una volta catturata, il trasporto della CO2 dal punto di emissione al sito di stoccaggio può essere effettuato tramite condotte o attraverso navi, in funzione dei volumi e delle distanze.

Negli Stati Uniti, già esiste un’infrastruttura di trasporto di CO2, sviluppata a partire dagli anni ‘70 ai fini di enhanced oil recovery, basata su trasporto in condotte, che oggi hanno raggiunto una lunghezza complessiva di circa 7.000 km.

In Europa, questa infrastruttura è nascente con i primi progetti industriali CCS attesi nei prossimi anni. Il primo Paese che si doterà di tale infrastruttura è la Norvegia, che attraverso il progetto Northern Lights dal 2024 avrà un’infrastruttura di trasporto multimodale basata su trasporto di CO2 liquida via nave verso un hub di ricezione, da cui partirà una condotta sottomarina di 100 km collegata con un sito di stoccaggio geologico off-shore in un acquifero a profondità di 2600 m.

Quali sono le prospettive della CCS in relazione ai bisogni di decarbonizzazione del mondo industriale ed energetico?

Secondo lo scenario IEANet-Zero” al 2050, la maggior parte della riduzione delle emissioni sarà ottenuta attraverso la diffusione di energie rinnovabili e attraverso l’elettrificazione. Circa l’8% della decarbonizzazione complessiva dell’economia mondiale sarà ottenuta tramite CCS.

La metà circa di questo potenziale riguarda l’applicazione di CCS ad impianti industriali, mentre l’altra metà riguarda impianti a emissioni negative che cattureranno la CO2 dall’aria (sia direttamente in impianti “direct air capture” – DAC, sia indirettamente catturando CO2 generata da ossidazione di biomassa) e la inietteranno nel sottosuolo in modo da compensare le emissioni residue, più difficili da evitare. Specialmente per la cattura diretta dall’aria, si tratta di una pratica intrinsecamente molto costosa, ma che in uno scenario Net-Zero potrà avere un ruolo importante nel lungo periodo.

Tornando alle prospettive su scala globale, se anche in termini relativi il ruolo della CCS nella decarbonizzazione fosse “solamente” dell’8%, in termini assoluti questo corrisponde a una capacità di cattura e stoccaggio di circa sei miliardi di tonnellate di CO2 all’anno, di cui 5 miliardi da rendere disponibili tra il 2030 e il 2050. Assumendo una capacità di cattura di riferimento di 1 milione di tonnellate all’anno per ogni singolo impianto, lo scenario IEA Net Zero corrisponde alla realizzazione di 5 nuovi impianti ogni settimana tra il 2030 e il 2050. Una sfida gigantesca in termini assoluti, sia per la costruzione degli impianti di cattura, sia per lo sviluppo delle infrastrutture di trasporto e stoccaggio.

E per chi “vuole utilizzare la CO2”: quali sono gli scenari del Carbon Capture Utilization?

La Carbon Capture Utilization (CCU) è uno schema attraente per aziende e policymakers sempre più attenti alle soluzioni per contrastare il cambiamento climatico, perché propone la narrazione di economia circolare e della trasformazione di un problema in una risorsa. Semplificando, possiamo considerare fondamentalmente due modalità di utilizzo della CO2.

La prima consiste nella “mineralizzazione” della CO2, ovvero nel suo utilizzo per produrre cementi alternativi o materiali da miscelare al cemento, ad esempio recuperando residui da demolizione nei processi di edilizia sostenibile. Uno scenario certamente importante e promettente, ma con volumi di mercato piccoli in relazione alla CO2 emessa dai processi industriali.

L’altra possibilità riguarda la conversione della CO2 in molecole attraverso reazione con idrogeno da elettrolisi. Queste molecole (ad esempio il metanolo) possono essere utilizzate nell’industria chimica o per la produzione di combustibili per il settore dei trasporti (i cosiddetti e-fuels). Una soluzione, quest’ultima, che può sostituire i combustibili fossili in settori difficili da elettrificare, come il trasporto navale e il trasporto aereo.

Se si prende il caso dell’industria chimica, le opzioni possibili per la decarbonizzazione risultano quindi sostanzialmente due. La prima consiste nel continuare a produrre utilizzando idrocarburi fossili e dotando gli impianti di produzione di sistemi CCS, Carbon Capture & Storage per ridurre le emissioni di CO2. La seconda consiste appunto nell’utilizzo di CO2 catturata da altri processi in un sistema CCU. Per la via CCU sono peraltro richieste grandi quantità di energia elettrica a zero emissioni per la produzione dell’idrogeno da utilizzare nella conversione della CO2, che – come nel caso prima descritto della produzione di acciaio verde – rende poco competitiva la produzione domestica europea rispetto all’importazione da località cha hanno accesso a risorse di energia rinnovabile a costo molto inferiore.

Anche per gli e-fuels, la produzione sarà economicamente più competitiva in aree geografiche diverse dall’Europa. Gli e-fuels potranno contribuire a decarbonizzare il trasporto navale e aereo, dove l’elevata densità del combustibile, resa possibile dalla presenza di carbonio, è una necessità. Sarà molto più arduo per gli e-fuels competere nella decarbonizzazione dalla mobilità leggera, dove l’elettrificazione diretta ha forti vantaggi economici legati alla maggiore efficienza energetica dall’elettricità alla ruota, rispetto agli e-fuels.

In prospettiva, la CCU è rappresenta indubbiamente una filiera interessante, che però non deve essere vista come una soluzione per evitare le emissioni di CO2 di un emettitore industriale, bensì come una possibilità per rispondere a una domanda di mercato di molecole contenenti carbonio per l’industria chimica e per la mobilità.

Come è cambiato negli ultimi anni l’atteggiamento verso la CCS da parte delle imprese?

Negli ultimi due o tre anni c’è stato un cambiamento molto rapido e molto profondo. C’è interesse perché la riduzione delle emissioni è diventato un tema con forti implicazioni economiche e reputazionali e le industrie sono alla ricerca di soluzioni. Molte imprese hanno compreso che oltre all’elettrificazione e all’idrogeno, anche la CCS Carbon Capture & Storage può svolgere un ruolo importante per la decarbonizzazione, specie in alcuni settori industriali.

Articoli correlati

Articolo 1 di 5