Analisi

Il mercato delle emissioni di CO2: quali rischi e quali prospettive

La crescita in termini di valori economici e di dimensioni dell’EU ETS non corrisponde a un aumento di investimenti virtuosi nella riduzione delle emissioni. I rischi di speculazione da una parte e i limiti legati alla capacità di controllare i certificati verdi impongono di guardare a questo mercato con attenzione.

Pubblicato il 01 Mar 2022

Luca Grassadonia, ESG Senior Consultant, P4I

Alla fine di gennaio 2022 il mercato globale dei crediti per le emissioni di CO2 era accreditato di una crescita sull’anno precedente del 164% e di un valore superiore a 850 Miliardi di euro (Reuters Refinitiv lo testimonia qui). La maggior parte di questo sviluppo arriva naturalmente dall’Europa, ovvero dall’area del nostro pianeta che ha creato questo meccanismo, nato nel 2005, per favorire e stimolare una riduzione delle emissioni e che è stato affrontato con il sistema EU ETS, European Union Emissions Trading System che a livello planetario rappresenta più del 90% di tutte le transazioni. (Del sistema per lo scambio delle quote di emissione dell’UE se ne parla ampiamente qui).

Crediti di carbonio come commodity

Un dato di fatto di questi ultimi mesi è rappresentato dalla crescita inarrestabile dei crediti di carbonio o certificati verdi che sono a tutti gli effetti trattati al pari di commodity o di materie prime e che hanno più volte superato la soglia critica di 90 euro sfiorando i 100 euro. Una soglia questa che secondo molti osservatori rappresenta una sorta di segnale d’allarme o di raccomandazione per tutte le imprese a considerare questo asset come decisivo per ridefinire la propria competitività.

Andamento prezzi crediti di carbonio. Fonte Trading Economics qui

Ma tendenze e numeri a parte sul mercato delle emissioni e sul valore stesso di questo strumento il dibattito è aperto.

Per Luca Grassadonia, ESG Senior Consultant di P4I si tratta di uno strumento che non ha raggiunto lo scopo per il quale è stato creato, in particolare perché si presta ad essere strumentalizzato. “Ci sono state imprese – osserva – che grazie all’acquisto di certificati ETS hanno potuto continuare a produrre e vendere prodotti caratterizzati da elevate emissioni e hanno nello stesso tempo finanziato attori che grazie alla ricerca e all’innovazione erano nelle condizioni di vendere crediti di carbonio. Parliamo di aziende che hanno creduto nell’elettrificazione assumendosi i rischi di sperimentazione e di stimolare un mercato timido davanti ai costi di questa trasformazione, rispetto ad aziende che nel breve periodo hanno potuto conservare il proprio modello di business pagando un prezzo economico per le proprie emissioni”.

Lo stimolo che il sistema delle emissioni voleva portare sui mercati allo scopo di favorire le aziende più virtuose con una serie di vantaggi, ha prodotto una situazione nella quale, – osserva Grassadonia -: si consente alle aziende di spostare” le proprie esternalità negative presso altri soggetti a un prezzo economico. Di fatto, “si permette di spostare il problema”.
Un aspetto a cui si aggiunge anche il tema dei controlli: si permette l’acquisto di “certificazioni carboniche”, ma non è previsto un sistema veramente valido e sicuro di controlli che permettano di accertare se quei crediti sono veramente tali, ovvero come vengono a loro volta prodotti.

Il ruolo di una carbon tax

L’alternativa vera, ovvero una soluzione più drastica, ma anche più efficace per Grassadonia è quella della carbon tax: “Le emissioni devono essere tassate – osserva – non possono essere comprate sul mercato. Ma è una strada che trova tanti ostacoli fondamentalmente perché si tradurrebbe in una sorta di barriera commerciale che andrebbe a ostacolare gli scambi con molti paesi”.

Ma il mercato delle emissioni non solo è cresciuto nel tempo in termini di valorizzazione e di dimensioni, ha assunto un suo profilo di tipo finanziario con l’impegno del mondo bancario e di intense attività di brokeraggio. “Questo ingresso del mondo finanziario – osserva – potrebbe essere letto come un modo improprio di intervenire in un mercato che non nasce certamente per essere oggetto di speculazione, ma che corre questo rischio. Aziende che non hanno la capacità di generare certificati verdi li possono acquistare e questo aspetto ha purtroppo creato una sorta di mercato artificiale di operatori che non hanno a che fare in modo diretto con le emissioni, ma che in ragione dei loro investimenti in certificati si trovano nella condizione di influenzare il prezzo stesso delle emissioni”.

I rischi di trattare i “certificati verdi” come derivati

Per dare una chiara rappresentazione del rischio che corre il mercato delle emissioni Grassadonia richiama l’esempio di un film che aiuta a comprendere il meccanismo finanziario che pesa su questo comparto. In “Una poltrona per due” la storia vede all’opera un gruppo di speculatori che acquistano e vendono derivati su succo d’arancia, pancetta e altri prodotti alimentari.

“Mentre il produttore di derrate alimentari nel momento in cui opera sul mercato deve considerare con la massima attenzione il fatto che le sue leve fanno riferimento a costi industriali, a costi di produzione e a costi operativi, per l’operatore finanziario il costo operativo è di fatto rappresentato sostanzialmente dal costo del denaro, e in un epoca in cui il costo del denaro è molto basso, questo operatore si trova, paradossalmente, ad avere molte più leve nel determinare i prezzi di quante non ne abbia chi produce effettivamente i beni che poi affrontano il mercato. Non solo, ma può mettere a bilancio anche minori rischi”.

Allo stesso modo l’azienda che emette CO2 e che magari investe in progetti per loro riduzione si assume dei costi, l’operatore finanziario che sceglie di trattare quelle emissioni presenta meno rischi e maggiori margini di manovra. In questo modo quella che doveva essere una operazione per premiare le imprese virtuose rischia di trasformarsi in un meccanismo in cui possono trovare spazio azioni speculative.

L’analisi di Grassadonia aggiunge poi anche una considerazione geografica: “Mentre i mercati delle materie prime e delle commodity sono a tutti gli effetti mercati globali – osserva – quello dei certificati è essenzialmente un mercato locale Europeo che si ripercuote anche su altri mercati. Questo implica che la domanda non trova una offerta sufficiente e deve rivolgersi ad altri paesi con ulteriori difficoltà legate ai controlli e alle verifiche”.

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Mauro Bellini
Mauro Bellini

Ha seguito la ideazione e il lancio di ESG360 e Agrifood.Tech di cui è attualmente Direttore Responsabile. Si occupa di innovazione digitale, di sostenibilità, ESG e agrifood e dei temi legati alla trasformazione industriale, energetica e sociale.

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