Diario di COP27

COP27: bene per Loss and Damage, male per la transizione energetica

Si chiude la COP27 di Sharm el-Sheikh con un accordo decisamente insufficiente per rispondere all’emergenza legata ai combustibili fossili, ma con un compromesso che dovrebbe permette di passare dalle intenzioni all’azione in termini di supporto ai paesi più vulnerabili

Pubblicato il 20 Nov 2022

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Un compromesso ai tempi supplementari per il documento finale che fotografa l’accordo raggiunto a Sharm el-Sheikh nella giornata di chiusura di COP27. Un compromesso purtroppo al ribasso che non risponde in modo convincente al senso di emergenza con cui i delegati sono arrivati in Egitto e che li vede tornare nei rispettivi paesi e nelle rispettive organizzazioni senza la soddisfazione di aver risposto alle aspettative della vigilia. Aspettative che peraltro, non erano, pragmaticamente, neanche altissime.

Se si guarda ai punti che caratterizzano questo accordo si è portati a concentrare l’attenzione primariamente su due punti: il Loss and Damage da una parte e la transizione energetica in termini di velocità di abbandono dell’utilizzo di fonti fossili. In entrambi i casi si è arrivati alla firma solo in virtù di significativi compromessi. In realtà (e su ESG360 lo approfondiremo in altri servizi) ci sono termini di straordinaria importanza come la trasformazione dei sistemi agroalimentari, come un piano strategico espressamente dedicato ai temi dell’acqua e alla protezione degli Oceani, come la difesa della biodiversità che trovano oggettivamente pochissima rilevanza nella sintesi di COP27 pur essendo chiaramente un pezzo fondamentale per la lotta ai cambiamenti climatici.

Ma l’attenzione mediatica e politica, come accennato riguarda il tema delle perdine e danni e il tema delle fonti fossili. La ragione è evidente in entrambi i casi attengono al grande tema relativo a chi deve pagare il prezzo di questa trasformazione già subito nel breve periodo.

In particolare per il Loss and Damage la domanda puntuale è anche relativa a chi paga per i danni già commessi e per le conseguenze che arrivano da un clima che è già profondamente cambiato. E qui si è vista all’opera la diplomazia specializzata sui temi politico-climatici. Nell’orizzonte temporale che ci separa dalla prossima COP28 verrà creato un fondo di investimenti che ha espressamente il compito di risarcire i paesi più vulnerabili ai cambiamenti climatici, quelli che già oggi pagano il prezzo più alto rispetto agli eventi metereologici estremi, da tifoni e inondazioni alle siccità. Il presupposto – reale e concreto – di questo accordo è basata sulla constatazione che i paesi più vulnerabili sono i paesi nello stesso tempo più deboli economicamente, sono i più esposti ai rischi ambientali e sono anche i paesi che hanno a loro carico il minor livello di emissioni a livello globale.

Il fondo è alimentato dai contributi dei paesi più sviluppati, paesi che sono nello stesso tempo forti dal punto di vista economico e con grandi responsabilità dal punto di vista della quantità di emissioni prodotte.

La sintesi raggiunta a COP27 è in buona misura legata all’iniziativa UE che aveva alzato il proprio target climatico: da 55% a 57% di riduzione della CO2 entro il 2030 e proprio nella giornata di venerdì con il vicepresidente della Commissione Ue Frans Timmerman aveva rilanciato l’impegno sul fondo Loss and Damage con una soluzione UE che permetteva di ripensare gli equilibri rispetto a chi è oggi un paese vulnerabile e a chi è invece oggi un paese economicamente forte, che deve invece contribuire al fondo. Un approccio che aggiorna la “visione” del pianeta in cui la Cina e l’India, pur essendo a tutti gli effetti delle potenze economiche, rientravano nella sfera dei paesi vulnerabili, ovvero da aiutare con questo fondo.

Dunque, se da una parte si è arrivati a un compromesso su “chi deve pagare il prezzo di questa situazione” e si è stabilito, sempre con un compromesso che queste risorse, più che un risarcimento, termine e concetto non gradito a molti paesi tra cui Stati Uniti, sono un finanziamento allo sviluppo. Certamente, la forma è anche sostanza e non tutti sono d’accordo, tuttavia se le risorse poi arrivano veramente il risultato è pragmaticamente positivo.

Il punto sul quale si è registrata la massima delusione riguarda il compromesso sulle azioni per la mitigazione. Su questo punto, che corrisponde a tutti gli effetti alla concreta possibilità di disegnare una soluzione che sta alla radice del problema delle emissioni l’accordo è un compromesso decisamente al ribasso.

Sui temi legati alla transizione energetica, all’eliminazione dei combustibili fossili, del carbone, del gas, del petrolio siamo purtroppo ancora lontani. A COP27 si sono saldati gli effetti di un mondo che non è pronto ad affrontare i rischi di un eventuale rallentamento del proprio percorso di crescita legato al passaggio da fonti fossili ad energie alternative, con le tensioni e le paure che sono arrivate in Egitto con la le conseguenze della guerra tra Russia e Ucraina, con la crisi energetica del gas, con la ricerca di molti paesi di risposte energetiche in tempi brevi che fossero in grado di colmare la riduzione delle forniture decise dalla Russia. Una situazione che ha portato paesi già avviati su percorsi di abbandono del carbone a riaccendere centrali ad alte emissioni di CO2 che avrebbero dovuto essere abbandonate. E a fronte di questa situazione il tema più critico riguarda la possibilità realistica di garantire le condizioni per garantire il contenimento del riscaldamento globale a +1,5°C come unica speranza per ridurre gli effetti dei cambiamenti climatici, considerando che l’aumento di temperatura attuale rispetto all’era pre-industriale pari a +1,2°C sta già trasformando clima, ambiente, stili di vita ed economie. Ma purtroppo COP27 si chiude senza una vera convincente speranza sulle misure per la mitigazione climatica e per la transizione energetica.

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