Normative

La messa alla prova dell’ente, serve una riforma della normativa 231

Spunti di riflessione concessi dalla pronuncia del GIP di Modena, orientati nell’ottica di un recupero responsabile degli enti che si dimostrino propositivi al ripristino di un’attività d’impresa all’insegna della legalità e altre pronunce giurisprudenziali in materia

Pubblicato il 25 Gen 2021

Giulio Guglielmotti

Avvocato praticante tirocinante giudiziario

messa alla prova ente

A circa vent’anni dall’entrata in vigore del D.Lgs. n. 231/2001, è possibile rilevare che, nella maggioranza dei processi in materia di responsabilità d’impresa, i modelli di organizzazione e gestione, adottati dall’ente in via preventiva, sono stati valutati per lo più non idonei a escludere la responsabilità dell’impresa per i reati commessi in suo interesse o vantaggio. Richiamati i caratteri peculiari dell’istituto, analizziamo l’applicabilità della “messa alla prova” all’ente responsabile di reato ex D.lgs. 231/2001 attraverso le recenti contrastanti pronunce giurisprudenziali in materia.

Intento del legislatore e modus operandi aziendale

Da ciò si evince, evidentemente, che l’intento del legislatore dell’epoca di conseguire il recupero alla legalità dell’ente, attraverso forme di esenzione (ante delictum) o riduzione (post delictum) delle sanzioni azionabili, a fronte di condotte riparatorie adottate dalla persona giuridica o dell’adozione di M.O.G. in grado di ridurre il rischio di commissione dei reati, non ha portato i frutti auspicati.

Di fatti, il modus operandi aziendale maggiormente in uso, attualmente, è quello di dotarsi di tali modelli soltanto dopo la contestazione dell’illecito, attendendo, dunque, di essere coinvolte nel processo penale per poi tentare di ottenere i benefici sanzionatori (ex artt. 12, 17, 49 e 78 D.lgs. 231/2001), in virtù degli adempimenti riparatori, risarcitori e riorganizzativi adottati.

Proprio da tali osservazioni, considerata la necessità di restituire forza propulsiva alla ratio della normativa in materia di responsabilità d’impresa, negli ultimi anni il dibattito dottrinale[1] e giurisprudenziale si è incentrato sulla possibilità per l’azienda di accedere alla sospensione del processo con messa alla prova, introdotta dalla L. 67/2014, in considerazione della c.d. eterointegrazione normativa prevista dagli artt. 34 e 35 D.lgs. 231/2001, che garantirebbe l’agevole trasferimento del rito speciale anche nella giurisdizione d’impresa.

L’istituto della messa alla prova

L’istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova, introdotto nel nostro ordinamento dalla L. 28 aprile 2014, n. 67, recante “Deleghe al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio. Disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili», prevede al Capo II una forma di probation processuale, applicabile anche ai soggetti maggiorenni, realizzante la rinuncia dello Stato all’esercizio della potestà punitiva, a seguito dell’esito positivo di un periodo di prova controllata e assistita.

Analizzando i soli aspetti della messa alla prova strettamente collegati alla comprensione dell’argomento trattato, si ricorda che l’accesso al rito speciale è “filtrato” dalla valutazione di sussistenza di una serie di requisiti di natura oggettiva e soggettiva.

Dal punto di vista soggettivo, la messa alla prova non è ammessa per i delinquenti e contravventori abituali, professionali e per tendenza e, in ogni caso, non è suscettibile di una seconda concessione.

Sotto il profilo oggettivo, invece, il legislatore ha sancito con l’art. 168-bis comma 1 c.p., che la sospensione con messa alla prova possa essere disposta soltanto nei procedimenti per reati puniti in via edittale con pena detentiva non superiore a quattro anni, nonché con pena pecuniaria (sola, congiunta o alternativa) ovvero per i reati per cui è ammessa la citazione diretta a giudizio ex art. 550 comma 2 c.p.p.

Quanto al contenuto della prova, cui l’imputato volontariamente decide di sottoporsi, questo consiste nella realizzazione di condotte volte all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato e, se possibile, al risarcimento del danno, dunque condotte lato sensu riparatorie, che in concreto si realizzano con l’affidamento dell’imputato al servizio sociale in vista dello svolgimento di un programma di trattamento (che può prevedere il compimento di attività di volontariato o la sottoposizione a una serie di prescrizioni nei rapporti con il servizio sociale) e sulla prestazione del lavoro di pubblica utilità.

Sul versante processuale, l’imputato, titolare esclusivo della funzione propulsiva del procedimento, può presentare istanza di accesso alla messa alla prova nel corso delle indagini preliminari (in tal caso è necessario acquisire il consenso, vincolante, del Pubblico Ministero ex art. 464-ter c.p.p.), successivamente, fino alla formulazione delle conclusioni in sede di udienza preliminare, ovvero, infine, secondo i termini decadenziali che assistono i casi di “innesto” di un rito alternativo su altri procedimenti speciali. Inoltre, l’istanza, presentata dall’imputato, deve essere corredata necessariamente del programma di trattamento predisposto dall’U.E.P.E. (Ufficio per l’esecuzione penale esterna) o almeno della richiesta di elaborazione dello stesso, debitamente protocollata.

Il giudice, ricevuta la richiesta ritualmente formulata, valutata preliminarmente l’ammissibilità dell’imputato al rito speciale, dopo aver escluso la ricorrenza dei presupposti per un proscioglimento immediato ai sensi dell’art. 129 c.p.p., ritenuta l’idoneità del programma ed effettuata la prognosi negativa di recidiva alla luce dei criteri fattuali di commisurazione della pena di cui all’art. 133 c.p., dispone con ordinanza impugnabile la sospensione del processo per il periodo di tempo necessario a espletare la messa alla prova.

Infine, svolto il periodo di prova dell’imputato, ricevuta la relazione finale dell’U.E.P.E., inerente all’andamento della messa alla prova, il giudice accerta, alternativamente, l’esito negativo della stessa, con revoca dell’ordinanza e ripresa del procedimento sospeso, ovvero il suo esito positivo, con conseguente declaratoria di estinzione del reato secondo le formule conclusive richieste dalla fase di riferimento.

Ciò detto, di seguito si proveranno a delineare i criteri di applicabilità della messa alla prova alle persone giuridiche, in base a quanto previsto dal dettato codicistico.

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Condizioni per l’applicabilità della messa alla prova all’ente

Come già accennato, il panorama dottrinale è orientato verso l’applicabilità della messa alla prova anche alle persone giuridiche, in considerazione degli artt. 34 e 35 del D.Lgs. 231/2001[2], che estendono le disposizioni del codice di procedura penale e “le disposizioni processuali relative all’imputato”, persona fisica, anche alle imprese nei casi di responsabilità ad esse ascrivibile ai sensi della normativa 231. Dunque, posticipando le riflessioni sul vivace dibattito giurisprudenziale in materia, le prime considerazioni in merito all’estensibilità del rito speciale all’impresa devono incentrarsi sulla imprescindibile sussistenza delle suindicate condizioni soggettive e oggettive di accesso.

In particolare, per quanto riguarda il profilo soggettivo, in primis, l’accesso alla messa alla prova deve essere circoscritto alle sole persone giuridiche che non ne abbiano già beneficiato in precedenza, escludendo le aziende recidive, inoltre, è da ritenersi necessario che l’impresa sia comunque dotata di un modello organizzativo precedente alla commissione del reato, pur valutato non idoneo.

L’accesso al rito alternativo, inoltre, è concesso dall’organo giudicante solo a seguito di un positivo giudizio prognostico in merito alla “scarsa pericolosità organizzativa” dell’ente, che deve dimostrare propensione alla riorganizzazione aziendale. Sicuramente, l’indagine verterà anche sul contesto aziendale in cui viene quotidianamente svolta l’attività d’impresa, se questo risulti più o meno permeato da una “attitudine” criminale abituale, professionale e per tendenza.

Si ricorda, altresì, che sono escluse dall’accesso al rito, tutte le aziende che “in via occasionale e comunque non radicata” siano soggette a infiltrazioni mafiose o di criminalità organizzata in generale, in grado di condizionare l’attività d’impresa. In tali casi, infatti, il legislatore ha introdotto nel Codice Antimafia, all’art. 34-bis, un nuovo strumento in grado di preservare la continuità produttiva dell’azienda, ossia la misura del controllo giudiziario, una forma di vigilanza prescrittiva, incisiva e penetrante, più blanda rispetto all’amministrazione giudiziaria, che mediante la sottoposizione temporanea dell’impresa a una serie di obblighi informativi e di compliance imposti direttamente dall’autorità giudiziaria, si pone l’obbiettivo di impedire il radicarsi dell’influenza mafiosa in azienda, al contempo senza determinare lo spossessamento della gestione della stessa.

Passando poi al profilo oggettivo, volendo mantenere un equilibrio con il codice di rito, l’ambito di applicazione della messa alla prova dovrebbe essere contenuto ai soli illeciti della società dipendenti dai reati-presupposto “meno allarmanti” del catalogo 231, selezionati in base a criteri di gravità della risposta sanzionatoria, tale da consentire un giudizio di ridotta offensività dello stesso, come implicitamente imposto dalla ratio dell’istituto.

Sul punto però, serie perplessità sono state manifestate dalla dottrina, la quale ha espresso il timore che, calibrare il requisito oggettivo di accesso alla messa alla prova sul solo parametro della risposta sanzionatoria, che porta inevitabilmente a escludere i reati presupposto più gravi, puniti con pena interdittiva, renderebbe “poco appetibile” il ricorso al rito speciale[3], andando così a vanificare lo scopo di recupero della finalità preventiva della 231. Sicché, la messa alla prova della persona giuridica dovrebbe, sotto il profilo oggettivo, riguardare tutti i reati inclusi nel D.Lgs. 231/2001, dunque, dovrebbe essere declinata differentemente rispetto alla persona fisica in ragione delle peculiari caratteristiche dell’azienda, riconoscendo il maggiore sforzo riorganizzativo dell’impresa, proprio in relazione ai reati più gravi sì da prevenirli in futuro.

In tal modo però, si potrebbe prospettare il rischio di tradire lo spirito della messa alla prova, che sembrerebbe riferirsi a fenomeni criminali non particolarmente preoccupanti, tuttavia, la Cass. pen., Sez. Un. con la sentenza del 31 marzo 2016, n. 36272, ha chiarito che per l’individuazione dei reati ai quali è applicabile, astrattamente, la messa alla prova non assumono rilievo le circostanze aggravanti di alcun tipo, comprese quelle ad effetto speciale, pertanto, risulta fortemente ampliato l’ambito applicativo del rito, rientrandovi anche i reati che esulano dalla tradizionale categoria della “medio-bassa gravità”.

Il contenuto della prova

Per quanto riguarda il contenuto della prova a cui è sottoposta l’impresa che ha ottenuto il beneficio dell’accesso al rito speciale, deve comporsi della medesima struttura prevista per l’imputato persona fisica.

Pertanto, premesso che sul versante compensativo-reintegrativo, l’ente provvederà anzitutto alla restitutio in integrum del bene leso o messo in pericolo dal reato presupposto, attuando le condotte che si ravvisino necessarie per elidere, o quantomeno, attenuare le conseguenze in termini di offesa che il reato presupposto ha determinato, compreso il risarcimento del danno, ovviamente, nei limiti della sua esigibilità e possibilità materiale e giuridica.

Il nucleo centrale del programma di trattamento, elaborato con l’U.E.P.E. territorialmente competente, è costituito dall’adozione e implementazione di strumenti idonei a perseguire la prospettiva di una riorganizzazione virtuosa dell’ente, nell’ottica di un suo ravvedimento e, se possibile, di una sua rieducazione. Circostanza, quest’ultima, che ovviamente non dovrà essere parametrata sulla componente psicologica tipica della persona fisica, ma andrà riferita all’intera politica di impresa che ha reso possibile la commissione del reato (sicuramente un’ardua sfida per il personale dell’U.E.P.E. formato principalmente per un recupero sociopsicologico della persona fisica, e non per valutazioni in merito alle politiche aziendali adottate dall’impresa).

Pertanto, premessa l’imprescindibile presenza di un modello preesistente, uno dei contenuti del programma di trattamento dell’ente potrà consistere nella adozione di un modello riparatore post factum, efficace, quale elemento posto a garanzia della volontà dell’impresa di procedere a una propria riorganizzazione verso la legalità. Tra l’altro, un programma così strutturato si pone in continuità con la normativa 231 ricalcando il meccanismo di sospensione delle misure cautelari disciplinato dall’art. 49 D.Lgs. 231/2001, che onera l’ente richiedente della realizzazione delle condotte riparatorie, risarcitorie e di adozione di MOG adeguati di cui all’art. 17 D.Lgs. 231/2001, oltre che della prestazione di una cauzione o di una garanzia reale, al fine di ottenere, in prima battuta, una paralisi temporanea del vincolo cautelare e, successivamente, in caso di adempimento da parte dello stesso ente, la revoca della cautela disposta.

L’ultimo elemento della prova è costituito dalla prestazione del lavoro di pubblica utilità che, nella sua trasposizione all’ente, può ben consistere in una serie di iniziative e attività che apportino un concreto contributo in termini di “socialità” e riparazione dei costi sostenuti dalla collettività a causa della commissione del fatto illecito, degli interessi che quest’ultimo ha leso o posto in pericolo, rinsaldando, ad esempio, la cultura della sicurezza sul lavoro.

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Giurisprudenza a confronto sulla messa alla prova dell’ente

La giurisprudenza si è tradizionalmente mostrata restia ad ammettere le imprese al rito della messa alla prova, salvo sparute aperture verso un approccio più progressista, in linea con le spinte di dottrina e professionisti del settore. In questo paragrafo si procede al confronto tra le recenti pronunce, divergenti tra loro, cercando di cogliere i motivi fondanti le decisioni.

Tribunale di Milano – Ordinanza del 27 marzo 2017

In tal senso si è espresso anche il Tribunale di Milano Sez. XI che, con l’ordinanza del 27 marzo 2017, ha rigettato la richiesta di sospensione del processo con messa alla prova, avanzata dalla difesa di un’impresa, imputata del reato previsto e punito dall’art. 25-septies comma 3 del D.Lgs. 231/2001, avendo conseguito per effetto del delitto presupposto di cui agli artt. 590 comma 3 e 113 c.p. (in relazione alla violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro), contestato ai soggetti di cui all’art. 5 comma 1 lett. a) e b) del D.Lgs. 231/2001, un vantaggio in termini di risparmio di spesa, riferito all’omessa adozione degli opportuni presidi antinfortunistici previsti dal D.Lgs. 81/2008.

Il Tribunale, fondando la propria decisione sul divieto di analogia, ha escluso l’applicabilità della messa alla prova all’ente, in considerazione dell’assenza di un’espressa previsione normativa, negli artt. 168-bis c.p., 464-bis c.p.p. e nel D.Lgs. 231/2001, che permetterebbe all’impresa di giovarsi del rito speciale.

Nello specifico, interrogandosi in primo luogo sulla natura dell’istituto, il giudice ha affermato che la sospensione del procedimento con messa alla prova, manifestandosi attraverso lo svolgimento del lavoro di pubblica utilità, possa essere ricompreso nella categoria delle sanzioni penali.

Pertanto, riconosciuta la natura sanzionatoria della messa alla prova, richiamati i corollari del principio di legalità ex art. 25, comma 2 Cost. in materia penalistica e ricordando l’insegnamento della giurisprudenza costituzionale (Corte Cost., 230/2012) in forza del quale il potere di normazione in materia penalistica – in quanto incidente sui diritti fondamentali dell’individuo e, in particolare, sulla sua libertà personale – è riservato all’organo legislativo e alle fonti primarie, l’organo giudicante si è posto in linea con consolidata giurisprudenza, secondo cui “la sanzione da applicare ad una fattispecie che ne sia priva non può essere rinvenuta attraverso l’interpretazione analogica. In caso contrario l’interprete della legge si trasformerebbe in legislatore con marcata incidenza negativa sia sul principio di certezza sia sulla stessa efficacia determinante delle disposizioni penali coinvolte in siffatta operazione interpretativa, diretta a correlare, con l’intervento del giudice il comportamento del soggetto attivo del reato ad una pena non costituente oggetto di specifica comminatoria legislativa” (cfr. Cass. SS.UU., 26 maggio 1984, n. 5655).

Dunque, il Tribunale, rifiutando un approccio “creativo” al sistema punitivo delle imprese, ha negato l’ammissibilità dell’applicazione della messa alla prova alle persone giuridiche, affermando che “in assenza, de jure condito, di una normativa di raccordo che renda applicabile la disciplina di cui all’art. 168-bis c.p. alla categoria degli enti, ne deriva che l’istituto in esame, in ossequio al principio di riserva di legge, non risulta applicabile ai casi non espressamente previsti, e quindi alle società imputate ai sensi del D.Lgs. n. 231 del 2001”.

G.I.P. di Modena – Sentenza del 21 settembre 2020 

Decisamente più “progressista e creativo” è stato invece il G.I.P. di Modena che ha accolto, a seguito di parere positivo del P.M., la richiesta di sospensione del processo con messa alla prova di una società operante nel settore della produzione di generi alimentari, imputata del reato previsto e punito dall’art. 25-bis 1. del D.Lgs. 231/2001, in relazione al delitto presupposto di cui all’art. 515 c.p. contestato dal legale rappresentante. Inoltre, con la recente sentenza del 21 settembre 2020, accertato l’esito positivo del periodo di prova (durante il quale, l’ente è stato affidato all’U.E.P.E. di Modena ai fini dello svolgimento di attività di osservazione, trattamento e sostegno funzionali alla realizzazione del programma di trattamento), il G.I.P. ha proceduto con la declaratoria di non doversi procedere nei confronti della società per estinzione del reato.

La decisione del giudice ha tenuto conto della concreta capacità dell’istante di tornare a operare entro i binari della legalità. L’impresa aveva, infatti, manifestato di provvedere, in maniera seria e tempestiva all’eliminazione degli effetti negativi dell’illecito, al risarcimento degli eventuali danneggiati, al restyling del M.O.G., attraverso il potenziamento delle procedure di controllo relative all’area aziendale in cui si è verificata l’azione criminosa, nonché, allo svolgimento di una attività di volontariato, consistente nella fornitura gratuita di una parte della propria produzione in favore di un organismo religioso che gestisce un punto di ristorazione rivolto a persone bisognose.

Tale decisione fornisce sicuramente un’interpretazione meno formalistica e più evolutiva sul tema trattato, ponendo in risalto l’intento del legislatore del 2001 di promuovere il ritorno alla legalità dell’ente non dimostratosi compliant, anche attraverso il ravvedimento post factum, incentivandone la collaborazione. Dunque, vengono superate le conclusioni raggiunte dal Tribunale di Milano dando applicazione al summenzionato principio della eterointegrazione normativa tra le discipline in esame, da applicarsi quando non vi sia incompatibilità oggettiva ed ontologica tra gli istituti.

Sentenza GIP Modena – 21.09.2020

G.I.P. di Bologna – Ordinanza del 10 dicembre 2020

Ancora, il Giudice per Indagini Preliminari di Bologna ha mostrato nuovamente le perplessità della giurisprudenza in merito all’accesso dell’ente alla messa alla prova.

Infatti, il G.I.P., con l’ordinanza del 10 dicembre 2020, nonostante il parere favorevole del Pubblico Ministero, ha dichiarato inammissibile la richiesta di applicazione dell’istituto in esame, avanzata dalla difesa di una società rinviata a giudizio per i reati previsti e puniti dagli artt. 24 e 25 del D.Lgs. 231/2001, in relazione ai delitti di cui agli artt. 319 quarter comma 2 e 640 comma 2 c.p. contestati al presidente e vicepresidente del C.d.A. della società.

Il giudice di Bologna, a differenza del Tribunale di Milano, negando la natura sanzionatoria dei lavori di pubblica utilità correlati al programma di trattamento e richiamando la Sent. n. 91/2018 della Corte Costituzionale nel punto in cui afferma che “il trattamento programmato non è una sanzione penale, eseguibile coattivamente, ma dà luogo a un’attività rimessa alla spontanea osservanza delle prescrizioni da parte dell’imputato, il quale liberamente può farla cessare con l’unica conseguenza che il processo sospeso riprende il suo corso”, ha affermato la possibilità di applicazione analogica (in astratto) della messa alla prova all’ente.

Ciò premesso, il giudicante ha motivato il suo rigetto soffermandosi sugli aspetti sostanziali dell’istituto di cui all’art. 168-bis c.p., che ha ritenuto essere modellato sulla figura dell’imputato persona fisica e, in ottica special-preventiva, dotato di finalità riparativa, conciliativa, ma anche e soprattutto rieducativa.

In tal senso, il lavoro di pubblica utilità, elemento rieducativo per eccellenza della messa alla prova, verrebbe snaturato dalla sua esecuzione da parte dell’ente. Non costituirebbe più un elemento essenziale nel percorso di risocializzazione dell’imputato, ma unicamente un costo per la persona giuridica; il lavoro di pubblica utilità per l’ente sostanzialmente si risolverebbe in un risarcimento nei confronti della collettività.

D’altro canto, il G.I.P. afferma che “il mancato coordinamento della legge n. 67 del 2014 con il testo della 231 del 2001 non è frutto di una mera dimenticanza del legislatore, ma è da considerare voluto, in ossequio al principio del ubi lex dixit voluit, noluit tacuit. La disciplina della sospensione del processo con messa alla prova non è applicabile alle persone giuridiche chiamate a rispondere ai sensi della 231/2001 in quanto non compatibile nei suoi aspetti sostanziali (oltre che, in misura minore, processuali), posto che non ne condividono la eadem ratio”.

In conclusione, il Tribunale di Bologna ritiene che l’estensione della probation agli enti rischierebbe di introdurre per via giurisprudenziale un nuovo istituto, i cui presupposti sostanziali e processuali, in assenza di specifico dettato normativo, dovrebbero essere declinati dallo stesso giudice.

Ordinanza GIP Bologna – 10.12.2020

Conclusioni

In conclusione, la richiesta di messa alla prova dell’ente, come detto in premessa, altro non è che un tentativo di colmarne i difetti e le lacune che in questi anni ha palesato la normativa in materia di responsabilità d’impresa. Tale rimedio è volto a incentivare l’azione propositiva dell’ente verso il cosciente ritorno alla legalità, e a screditare invece il ricorso al patteggiamento come unica strada per evitare l’approdo al dibattimento.

L’ammissione dell’ente al periodo di prova, infatti, ha il pregio di attuare una forte ed efficace responsabilizzazione dell’impresa, posta di fronte al dovere, qualora intenda conseguire l’estinzione dell’illecito, di realizzare, seppur ex post, una rimozione degli effetti negativi del reato-presupposto.

Ciò detto, è necessario ricordare che l’applicazione del rito speciale alle persone giuridiche, alla luce del quadro normativo vigente completamente carente, consentirebbe al giudice di declinare liberamente i presupposti sostanziali e processuali per l’ammissione dell’ente alla messa alla prova.

Certamente non si nega che il testo della 231 assimila la posizione della persona giuridica a quella della persona fisica, ma in virtù di tale equipollenza non si può ammettere, addirittura, la “costruzione” di interi aspetti sostanziali e processuali, tanto da riportare l’intero contenuto del programma del rito speciale all’interno del D.Lgs. n. 231/2001, la cui unica titolarità, in ossequio agli artt. 3 e 25 Cost., rimane in capo al legislatore[4].

Pertanto, considerati gli spunti di riflessione concessi dalla recente pronuncia del giudice modenese, certamente orientati nell’ottica di un recupero responsabile degli enti che si dimostrino propositivi al ripristino di un’attività d’impresa all’insegna della legalità, si afferma la necessità di una riforma organica della normativa 231, che faccia luce sui coni d’ombra, anche in relazione all’effettiva applicabilità della messa alla prova alle imprese e promuova realmente la cultura della compliance aziendale.

  1. G. Fidelbo-R.A. Ruggiero, Procedimento a carico degli enti e messa alla prova: un possibile itinerario, in Resp. amm. soc. enti, 2016, 4, p. 3 ss., cui sono seguite le riflessioni di H. Belluta, L’ente incolpato. Diritti fondamentali e “processo 231”, Torino, 2018, p. 121 ss.; F. Centorame, Enti sotto processo e nuovi orizzonti difensivi. Il diritto al probation dell’imputato persona giuridica, in L. Lupária-L. Marafioti-G. Paolozzi (a cura di), Diritti fondamentali e processo all’ente. L’accertamento della responsabilità d’impresa nella giustizia penale italiana e spagnola, Torino, 2018, p. 199 ss.; G. Garuti, La responsabilità degli enti e le prospettive di sviluppo del sistema sanzionatorio nell’ottica del diritto processuale penale, in A. Fiorella-A. Gaito-A.S. Valenzano (a cura di), La responsabilità dell’ente da reato nel sistema generale degli illeciti e delle sanzioni anche in una comparazione con i sistemi sudamericani. In memoria di Giuliano Vassalli, Roma, 2018, p. 432 ss.; M. Riccardi-M. Chilosi, La messa alla Prova nel processo “231”: quali prospettive per la diversion dell’ente, in Dir. pen. cont., 2017, n. 10, p. 47 ss.; R.A. Ruggiero, Scelte discrezionali del Pubblico Ministero e ruolo dei modelli organizzativi nell’azione contro gli enti, Torino, 2018, p. 171 ss.; A. Scalfati, Punire o reintegrare? Prospettive sul regime sanzionatorio contro l’ente, in A. Fiorella-A. Gaito-A.S. Valenzano (a cura di), La responsabilità dell’ente da reato nel sistema generale degli illeciti e delle sanzioni anche in una comparazione con i sistemi sudamericani. In memoria di Giuliano Vassalli, Roma, 2018, p. 441 ss.
  2. Art. 34 D.Lgs. 231/2001 – “Disposizioni processuali applicabili”: Per il procedimento relativo agli illeciti amministrativi

    dipendenti da reato, si osservano le norme di questo capo nonché, in quanto compatibili, le disposizioni del codice di procedura penale e del decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271.

    Art. 35 D.Lgs. 231/2001 – “Estensione della disciplina relativa all’imputato”: All’ente si applicano le disposizioni processuali relative all’imputato, in quanto compatibili.

  3. G. Fidelbo – R. A. Ruggiero, Procedimento a carico degli enti e messa alla prova: un possibile itinerario.
  4. v., A. Presutti- A. Bernasconi, Manuale della responsabilità degli enti, 2° ed., Milano, 2018.

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