Contagio da coronavirus tra il personale sanitario, per l’Inail riconducibile all’infortunio

Nel quadro della disciplina assicurativa, la causa virulenta di origine biologica è equiparata a quella violenta che costituisce il presupposto fondante dell’infortunio sul lavoro

Pubblicato il 04 Apr 2020

personale sanitario

Nell’epidemia mondiale che ci troviamo ad affrontare, il ruolo fondamentale e in prima linea, in questo momento di grande emergenza, è svolto dagli operatori in ambito sanitario: medici, infermieri e Oss. Purtroppo però, come dimostrano i tanti casi accertati di contrazione del virus da parte degli operatori sanitari, nessuno era preparato a una guerra simile.

Numerose sono state le richieste avanzate in tema di gestione e inquadramento delle assenze dal lavoro dei dipendenti del Servizio sanitario nazionale e, in generale, di qualsiasi altra struttura sanitaria pubblica o privata in caso di contagio da Covid-19 avvenuto nell’ambiente di lavoro, oppure per causa determinata dallo svolgimento dell’attività lavorativa.

Inail, il contagio dei sanitari è riconducile all’infortunio sul lavoro

Con nota n. 3675 del 17 marzo 2020 l’Inail ha fornito chiarimenti in merito alla gestione dell’astensione dal lavoro del personale dipendente di strutture sanitarie esposto al contagio da Coronavirus. L’Istituto assicuratore ha chiarito che le affezioni morbose da Covid-19 sono riconducibili all’infortunio sul lavoro e non alla malattia professionale e come tali devono essere istruite e trattate in sede amministrativa.

Giova precisare che, per definizione, l’infortunio sul lavoro è l’evento, dovuto a causa violenta, in occasione di lavoro, da cui derivi la morte del lavoratore, l’inabilità permanente al lavoro (assoluta o parziale) o l’inabilità temporanea assoluta, che determini l’astensione dal lavoro per più di tre giorni.

Pertanto la nota n. 3675 era doverosa per la difficoltà concettuale di affiancare la lesione da contagio a un infortunio. L’Inail si è mossa però su di un terreno solido, visto l’unanime orientamento giurisprudenziale in materia di affezioni morbose che derivino da un agente patogeno estrinseco di natura virulenta e le Linee guida per la trattazione dei casi di malattia infettive e parassitarie di cui alla precedente sua circolare n. 74 del 23 novembre 1995.

Nell’ambito delle affezioni morbose si è ritenuto coerentemente di ricondurre anche i casi di Covid-19 dei lavoratori del Servizio sanitario nazionale e, in generale, di qualsiasi altra struttura sanitaria pubblica o privata con copertura assicurativa Inail, ossia medici, infermieri e altri operatori sanitari in genere tutte le volte in cui sia accertata l’origine professionale del contagio, ossia quello avvenuto nell’ambiente di lavoro o per causa determinata dallo svolgimento dell’attività lavorativa.

In tal modo – si ribadisce – le affezioni morbose sono inquadrate, nel quadro della disciplina assicurativa per l’aspetto assicurativo, all’interno della categoria degli infortuni sul lavoro, equiparando la causa virulenta di origine biologica (Covid-19) a quella violenta costituente il presupposto fondante per il riconoscimento dell’infortunio sul lavoro ex art. 2 D.p.r. 1124/65 (Testo unico degli infortuni e malattie professionali).

Con la sentenza n. 6390 del 1998 la Corte di Cassazione ha chiaramente precisato che “costituisce principio consolidato che causa violenta da infortunio è da considerarsi anche l’azione di fattori microbici o virali che, penetrando nell’organismo umano, ne determinano l’alterazione dell’equilibrio anatomico – fisiologico, semprechè tale azione, pur se i suoi effetti si manifestino dopo un certo tempo – sia in rapporto (accertabile anche con ricorso a presunzioni semplici) con lo svolgimento dell’attività lavorativa”.

Per meglio approfondire il tema trattato si rende necessario puntualizzare che i caratteri essenziali della causa violenta si ritrovano nella esteriorità e rapidità del suo manifestarsi (nel caso che ci occupa trattasi dei sintomi propri del Covid-19: tosse, febbre alta e diarrea).

Se ne deduce che per essere indennizzabile la malattia-infortunio contratta deve costituire una conseguenza dell’esposizione del soggetto infortunato a un determinato rischio professionale e deve essere contratta “in occasione di lavoro” (costituente il secondo presupposto per il riconoscimento dell’infortunio sul lavoro).

La giurisprudenza fa rientrare nella nozione di “occasione di lavoro” tutti i fatti, anche straordinari e imprevedibili, inerenti all’ambiente, alle macchine, alle persone e al comportamento dello stesso lavoratore, purchè attinenti alle condizioni di svolgimento della prestazione, ivi compresi gli spostamenti spaziali funzionali allo svolgimento della stessa.

Rimane escluso il c.d. rischio elettivo, ossia tutto ciò che risulti estraneo e non attinente all’attività lavorativa, costituente la conseguenza di un rischio collegato a un comportamento volontario del lavoratore, volto a soddisfare esigenze meramente personali e, comunque, non in rapporto con lo svolgimento della prestazione (Cfr Cass. N. 7649/2019).

Gli obblighi per il datore di lavoro

L’Inail ha incasellato la tutela assicurativa anche nell’ipotesi di infortunio in itinere ossia nel caso in cui gli eventi infettanti siano intervenuti durante il normale tragitto di andata e ritorno abitazione – sede di lavoro, ovvero durante il percorso che collega due luoghi di lavoro se il lavoratore ha più rapporti di lavoro, ovvero ancora nel normale percorso di lavoro di andata e ritorno dal luogo di lavoro a quello di consumazione abituale dei pasti, qualora non sia presente un servizio di mensa aziendale.

In base a quanto detto, in ordine alla configurazione del periodo di assenza lavorativa dei lavoratori dipendenti del Servizio sanitario/amministrativo delle Aziende sanitarie locali e delle altre strutture sanitarie pubbliche o private l’Inail ha rappresentato le seguenti regole:

  1. Dipendenti posti in quarantena per motivi di sanità pubblica. In tali casi non essendoci la prova della contrazione dell’infezione non sussistono i presupposti dell’infortunio e quindi dell’intervento dell’Istituto;
  2. Dipendenti che risultano positivi al test specifico di conferma: ammissione alla tutela Inail;
  3. Dipendenti che risultano postivi al test specifico di conferma posti in quarantena o in isolamento domiciliare: ammissione alla tutela Inail. La tutela copre l’intero periodo di quarantena e quello eventualmente successivo dovuto a prolungamento di malattia che determini una inabilità temporanea assoluta al lavoro.

L’Inail nella sua nota ha chiarito che il dies a quo ai fini del computo della decorrenza della tutela è costituito dalla data di attestazione positiva dell’avvenuto contagio tramite il test specifico di conferma (tampone) da parte delle autorità sanitarie.

Riconducendo il caso specifico alla disciplina generale è possibile definire che gli operatori sanitari che abbiano contratto per causa di lavoro la infezione da Covid-19, hanno diritto a ricevere dall’Inail l’indennizzo per il periodo di temporanea inabilità lavorativa conseguente alla malattia (indennizzabile con l’indennità di inabilità temporanea) e dei postumi permanenti di danno biologico (indennizzati in capitale o con rendita in caso di postumi superori al 16 %). Qualora, invece, la patologia abbia causato il decesso dell’infortunato, i suoi superstiti hanno diritto all’assegno funerario e alla rendita dei superstiti (art. 85 T.U.).

Ovviamente la trattazione del caso come infortunio sul lavoro non esclude la tutela concorrente come malattia professionale, allorchè siano provati in causa gli elementi costitutivi della stessa. Infatti con la nascita del sistema misto sono ammesse alla tutela dell’Inail non solo le malattie professionali tabellate, per le quali l’origine professionale è presunta ex lege, ma anche le malattie non tabellate, purchè il lavoratore provi l’eziologia delle stesse. In tal caso, la prova del contagio può essere presunta ex art. 2729 c.c., invocando come procedimento presuntivo “sia la natura infettante di un evento lesivo indicato come occasione di lavoro e fonte del contagio” sia “l’accadimento dell’evento stesso” (Cfr. Cass.civ. sez. lav. 25/7/1991 n. 8058).

Sotto il profilo operativo va però evidenziato che la trattazione del caso in questione quale infortunio – con esonero dalla specifica prova del momento in cui la malattia è stata contratta, in quanto strettamente connessa al rischio professionale insito nello svolgimento dell’attività sanitaria – consente sotto un profilo prettamente temporale una tutela più efficace e certa del diritto leso, stante l’esonero dalla ben più gravosa prova della malattia di origine professionale.

In base alle istruzioni per la trattazione dei casi di malattie infettive e parassitarie, la tutela assicurativa si estende infatti anche alle ipotesi in cui l’identificazione delle precise cause e modalità lavorative del contagio dovesse presentarsi problematica a causa – per esempio – del lasso di tempo tra il contagio ed il manifestarsi dei primi sintomi. Ne discende che, ove l’episodio che ha determinato il contagio non sia percepito o non possa essere provato dal lavoratore, l’ente assicurativa potrà/dovrà ricorrere a una deduzione presuntiva legata all’evidenza delle precipue mansioni svolte in ambito sanitario.

Va altresì precisato che ai fini di una completa indagine presuntiva occorre rapportare il rischio di contagio, cui sono soggetti gli operatori sanitari, al dato epidemiologico territoriale in modo da configurare il cosiddetto rischio specifico.

Nell’ipotesi di contagio il datore di lavoro, così come doveroso per gli altri casi di infortunio, dovrà effettuare la denuncia all’Inail compilando il consueto modulo presente nell’applicativo relativo alla denuncia di infortunio on-line “malattia- infortunio”.

Resta fermo l’obbligo da parte del medico certificatore di trasmettere all’Inail il certificato medico di malattia. L’Inail a tal proposito, nella ridetta nota del 17 marzo 2020, ha segnalato l’opportunità di valutare in favore dell’infortunato, alla luce della situazione emergenziale attuale, sia le modalità di redazione che di invio della certificazione, avendo cura principalmente di accertarne la provenienza. L’Istituto assicuratore ha infine sollecitato i datori di lavoro a una maggiore flessibilità invitandoli ad adottare ogni misura proattiva per l’acquisizione delle denunce da parte loro evitando comportamenti improntati al rigore letterale delle dispozioni normative.

La certezza della tutela assicurativa dei lavoratori dipendenti esercenti la prestazione in ambito sanitario non deve però indurre ad abbassare la guardia sotto il profilo della igiene nell’ambito lavorativo con particolare riguardo alla epidemia in atto.

Il datore di lavoro ha comunque l’obbligo di adottare ogni cautela anti-contagio disciplinata dal “Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro” ed emanato in attuazione (articolo 1, comma primo, numero 9) del Dpcm 11 marzo 2020. Questo Protocollo oltre a inserire il rischio da agente biologico virale da Covid -19 all’interno del Testo Unico per la sicurezza sul lavoro di cui al D. Lgs 81/2008, ha introdotto altre misure di contenimento alle quali le aziende devono attenersi per il proseguimento dell’attività lavorativa.

Le aziende sanitarie devono rispettare gli obblighi della normativa sulla privacy

Tra le cautele da adottare vi è quella di vietare l’accesso ai dipendenti che presentino una temperatura corporea superiore a 37,5° o che manifestino altri sintomi influenzali, nonché a tutti coloro che abbiano frequentato nei precedenti 14 giorni persone risultate positive al virus o che siano transitati in zone in cui si sono verificati i focolai del virus.

Ne consegue che le aziende sono autorizzate a rilevare la temperatura dei dipendenti prima di consentir loro l’accesso nonché di raccogliere informazioni in base a quanto sopra detto.

Ma, come specificato nelle note 1 e 2 del Protocollo, nello svolgimento di tali compiti, l’azienda, in qualità di titolare del trattamento dei dati dei suoi dipendenti ha l’obbligo di rispettare i principi e le garanzie imposte dalla normativa sulla privacy.

Per l’effetto, il datore di lavoro:

  • in caso di esito negativo nel rilevamento della temperatura corporea non deve registrare il dato acquisito. È necessario registrare i dati acquisiti solo per documentare, in caso di esito positivo del test (superamento della soglia limite di temperatura), il divieto di accesso del dipendente al lavoro.
  • in caso di questionari raccolti circa l’eventuale contatto con persone contagiate non deve raccogliere i dati di queste ultime;
  • deve conservare i dati acquisiti solo fino al termine dello stato di emergenza;
  • deve definire le misure di sicurezza e organizzative adeguate alla protezione dei dati acquisiti.

Occorrerà pertanto individuare i soggetti preposti alla raccolta dei dati e al controllo della temperatura corporea fornendo loro le istruzioni adeguate, e predisporre procedure di comunicazione interna o esterna solo a soggetti autorizzati, come ad esempio l’autorità sanitaria competente per la ricostruzione della filiera degli eventuali “contatti stretti di un lavoratore risultato positivo al Covid-19”.

In caso di isolamento del dipendente a seguito del rilievo oltre soglia della temperatura corporea, l’azienda deve assicurare modalità idonee per il mantenimento della riservatezza del lavoratore e tutelarne la dignità.

Resta fermo inoltre il principio espresso dall’art. 44 del D.Lgs. 81/2008, per il quale in caso di mancato rispetto delle misure previste dal protocollo di cui sopra, il lavoratore potrà astenersi dal prestare la sua attività lavorativa senza subire alcun pregiudizio, infatti: “Il lavoratore che, in caso di pericolo grave, immediato e che non può essere evitato, si allontana dal posto di lavoro o da una zona pericolosa, non può subire pregiudizio alcuno e deve essere protetto da qualsiasi conseguenza dannosa. Il lavoratore che, in caso di pericolo grave e immediato e nell’impossibilità di contattare il competente superiore gerarchico, prende misure per evitare le conseguenze di tale pericolo, non può subire pregiudizio per tale azione, a meno che non abbia commesso una grave negligenza”.

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