Due lavoratori su tre dichiarano di aver subito almeno un episodio di discriminazione nel corso della propria carriera. È il dato più forte che emerge dal Cegos International Barometer 2025 “Diversity & Inclusion nelle organizzazioni”, indagine condotta in dieci Paesi su oltre 5.500 dipendenti e 438 direttori HR. In Italia la percentuale si attesta al 55%, mentre l’84% degli intervistati a livello globale afferma di aver assistito a episodi di esclusione.
Le discriminazioni più ricorrenti riguardano aspetto fisico, età, razzismo e status socioeconomico. Numeri che raccontano una contraddizione evidente: le aziende parlano sempre più di inclusione, ma faticano a trasformare gli impegni dichiarati in pratiche quotidiane capaci di incidere davvero sulla vita delle persone.
“I risultati di questo Barometer confermano che la discriminazione non si limita più a criteri visibili o ‘tradizionali’ come età, genere o etnia – spiega Alessandro Reati, Head of People & Culture e HR Practice Business Leader di Cegos Italia – Si estende a dimensioni più sottili: il background sociale, il luogo di residenza o il livello di istruzione. Questo evidenzia chiaramente quanto in profondità gli stereotipi continuino a influenzare i comportamenti sul posto di lavoro, spesso in maniera inconsapevole. Per le organizzazioni, questi risultati rappresentano un campanello d’allarme, che mette in luce l’urgenza di rafforzare le misure contro la discriminazione, aumentare la consapevolezza e fornire ai manager gli strumenti adeguati per promuovere ambienti realmente inclusivi”.

Discriminazioni vissute e osservate: un freno alla coesione e alla produttività
Il dato forse più preoccupante è che il 66% dei dipendenti a livello globale (55% in Italia) si considera vittima diretta di discriminazione. L’impatto non è solo etico, ma anche economico e sociale: la perdita di motivazione, la riduzione della fiducia nei confronti dell’azienda e l’aumento del turnover diventano elementi che incidono sulla resilienza organizzativa.
“Lo studio evidenzia che le discriminazioni basate sull’aspetto fisico e sull’età rimangono le più diffuse negli ambienti professionali – prosegue Reati – Gli standard estetici promossi nella società – probabilmente amplificati dai social media – si riversano naturalmente anche nei luoghi di lavoro. Altri criteri, meno dibattuti pubblicamente, come l’opinione politica o il background sociale, alimentano una forma di esclusione più sottile ma altrettanto reale”.
Hr consapevoli, ma le imprese devono accelerare
Il 98% dei direttori HR a livello globale riconosce l’esistenza di discriminazioni nei luoghi di lavoro, e oltre la metà ammette che si verificano anche all’interno della propria azienda. Tuttavia, meno della metà dei manager viene percepita dai dipendenti come un vero alleato contro le discriminazioni.
“Consapevolezza e sensibilità non bastano più – argomenta Emanuele Castellani, Executive Board Member del Gruppo Cegos e Ceo di Cegos Italia – Oggi i dipendenti si aspettano che i manager siano veri alleati: pronti ad agire, supportare e prendere posizione. Non è questione di buona volontà o di affermazioni formali, ma di assumere una scelta chiara e visibile per l’equità e l’inclusione, un vero cambio di paradigma manageriale”.

Microaggressioni e stereotipi quotidiani: un costo sociale
Commenti sessisti, osservazioni legate all’età, battute razziste o l’enfasi sull’aspetto fisico sono tra le microaggressioni più segnalate. Comportamenti quotidiani che logorano la fiducia e il benessere dei team, riducendo la coesione organizzativa.
“I risultati confermano che la discriminazione quotidiana e le microaggressioni sono davvero tossiche per l’atmosfera lavorativa e per la coesione dei team – prosegue Castellani – I professionisti HR sono sempre più consapevoli e vigili, soprattutto riguardo al sessismo e alla stigmatizzazione delle opinioni. Devono, però, poter disporre di strumenti adeguati per supportare tutti gli stakeholder nell’assunzione delle proprie responsabilità”.
D&i come leva esg: la “s” diventa fattore critico
Dal Barometro emerge che il 94% dei dipendenti conosce i concetti di diversità e inclusione, e circa l’80% li considera determinanti nella scelta di un datore di lavoro. Ciò significa che la D&I non è più solo una questione etica, ma un vero driver competitivo e di attrattività, parte integrante della “S” dei criteri ESG.
“La maggioranza delle aziende considera ormai i temi D&I come strategici – spiega Reati – Il fatto che un professionista HR su tre, a livello mondiale, preveda di accelerare le proprie iniziative rappresenta un segnale forte: le organizzazioni sono pronte ad andare oltre la semplice conformità normativa e a trasformare la D&I in un vero e proprio motore di cambiamento culturale e di engagement dei dipendenti”.
Manager inclusivi: un nodo irrisolto
Solo il 59% dei manager ha ricevuto una formazione sui bias inconsci, e meno della metà è percepita come un alleato. Questo divario mostra quanto sia necessario integrare la competenza inclusiva come parte integrante della leadership, al pari delle competenze tecniche o gestionali.
“Le aziende stanno cambiando approccio alla Diversity & Inclusion. Non basta più sensibilizzare o comunicare messaggi istituzionali – insiste Castellani – oggi serve coinvolgere le persone come alleati visibili e attivi. Allyship significa questo: prendere posizione, sostenere i gruppi marginalizzati e promuovere comportamenti inclusivi ogni giorno”.
Inclusione come leva di resilienza e sostenibilità
Il Barometro Cegos 2025 conferma che la Diversity & Inclusion è ormai un pilastro ESG, senza il quale le strategie aziendali rischiano di restare meri slogan. L’impegno dichiarato deve tradursi in strumenti concreti per manager e HR, in politiche di tolleranza zero e in una leadership esemplare.
“Il management inclusivo non si può solo dichiarare – conclude Reati – Oltre a strumenti e framework, serve coltivare attivamente comportamenti visibili che creino fiducia e incarnino ogni giorno una cultura di inclusione. Sviluppare competenze D&I non è opzionale: è una leva strategica per cambiare comportamenti, migliorare le relazioni e creare ambienti davvero aperti a tutti”.