Bioeconomia circolare

Dai residui della torrefazione del caffè ai prodotti da forno per ridurre costi e impatto ambientale



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L’impiego dei residui della torrefazione del caffè nei prodotti da forno potrebbe portare a un significativo calo dell’impatto ambientale e a un risparmio nei costi di smaltimento per le aziende, secondo un’indagine ENEA che si inserisce nel progetto europeo Biocircularcities

Pubblicato il 1 apr 2024



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L’impiego degli scarti della torrefazione del caffè come ingrediente di valore nei prodotti da forno potrebbe portare a una diminuzione del 73% dell’impatto ambientale derivante dalle lavorazioni che coinvolgono la farina, e del 50% dei costi di smaltimento per le imprese. Questo è quanto si evince da una indagine ENEA riguardante la sostenibilità economica e ambientale della gestione della silverskin, il principale rifiuto organico generato dalla torrefazione del caffè, che i torrefattori sono tenuti a convertire in compost. La ricerca Sustainability Assessment of Coffee Silverskin Waste Management in the Metropolitan City of Naples (Italy): A Life Cycle Perspective è stata condotta nell’ambito del progetto europeo Biocircularcities e i risultati sono stati pubblicati sulla rivista Sustainability.

La sostenibilità economica e ambientale dell’utilizzo alimentare della silverskin

Stando a quanto racconta Giuliana Ansanelli, ricercatrice ENEA e coautrice dello studio insieme alle colleghe Gabriella Fiorentino e Amalia Zucaro del Laboratorio ENEA Tecnologie per il riuso, riciclo, recupero e valorizzazione di rifiuti e materiali, l’analisi del ciclo di vita mostra che l’utilizzo alimentare della silverskin contribuirebbe a prevenire l’emissione di circa 250 kg di CO2 equivalente per ogni tonnellata di farina sostituita con lo scarto del chicco del caffè, il che corrisponde al quantitativo di CO2 che può essere assorbito da 22 alberi.

“Invece, – prosegue Ansanelli – la sua valorizzazione come compost determina l’emissione di circa 236 kg di CO2 equivalente e il suo impatto ambientale non è compensato dai vantaggi di utilizzare il compost ottenuto al posto dei fertilizzanti sintetici”.

I benefici si farebbero sentire anche a livello economico, spiega Ansanelli. Infatti, l’analisi dei costi del ciclo di vita svela che l’azienda di torrefazione campana, analizzata nello studio, è in grado di ridurre di quasi il 60% i costi legati allo smaltimento della silverskin, passando da 448 €/ton a 190 €/ton, se valorizzata come ingrediente funzionale piuttosto che come compost”, sottolinea Gabriella Fiorentino.

Una modalità di gestione alternativa degli scarti della torrefazione del caffè

Nel 2019 l’industria agroalimentare della Città Metropolitana di Napoli ha prodotto circa 30mila tonnellate di rifiuti organici, dei quali quasi il 3% proveniva da aziende di torrefazione del caffè (principalmente silverskin).

Amalia Zucaro osserva che oggi come oggi questo rifiuto organico viene inviato agli impianti di compostaggio e oltre agli elevati costi di trattamento, bisogna considerare che in Campania c’è carenza di infrastrutture per il trattamento della frazione organica.

Perciò invita a individuare modalità di gestione alternative dello scarto della torrefazione del caffè, in accordo con i principi della bioeconomia circolare e della simbiosi industriale, che permettano di ridurre impatto ambientale, costi di smaltimento a carico delle aziende e della regione e pressione sugli impianti di compostaggio.

“Il nostro studio – conclude Zucaro – evidenzia proprio questo: l’impiego della silverskin nei prodotti da forno potrebbe rappresentare una valida soluzione a beneficio non solo dell’ambiente e dell’economia ma anche della salute dei consumatori, visto che è ricca in fibre (35%), proteine (19%) e antiossidanti”.

Prima però deve superare l’approvazione UE

Nonostante i risultati promettenti sul suo uso come ingrediente funzionale, la silverskin deve superare la procedura di approvazione per essere utilizzata nei prodotti alimentari in commercio.

Tale procedura stabilita dal Regolamento (UE) 2015/2283 è supervisionata dalla Commissione europea e comporta la verifica dell’assenza di contaminanti chimici e biologici che potrebbero avere effetti dannosi sulla salute umana. In aggiunta, la CE potrebbe richiedere all’Autorità europea per la sicurezza alimentare di condurre una valutazione del rischio, per una maggiore tutela dei consumatori.

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